Aristotele, le donne e il diaconato. La sintesi personale del Card. Petrocchi
La giusta reazione contro le forme di un giornalismo sguaiato e insultante, senza scrupoli e senza cultura, non deve fare dimenticare una cosa fondamentale. Questa vicenda recente, che ha visto coinvolta Linda Pocher ed altri teologi, diventati oggetto di bullizzazione da parte di un sito che da anni procede in questo modo discutibile , nasce dalla pubblicazione del resoconto, più o meno ufficiale, dei lavori della Seconda Commissione di studio sull’accesso della donna al ministero del diaconato. Mi sembra importante rilevare che i toni sguaiati, che tutti censurano, nascono da un approccio rozzo alle questioni, che è diventato “usuale” nel discorso cattolico dal 1976 in poi, quando si riflette sul tema della donna in rapporto al ministero ecclesiale. Non è sbagliato, infatti, osservare che quando ci si avvicina a questo tema, in tutti i discorsi ufficiali, si assiste alla crescita del livello di “rozzezza”, che implica il sovrapporsi di pesanti pregiudizi all’interno della argomentazione teologica, che così risulta “distorta” e “senza autorità”. Vediamo di capire meglio questo fenomeno, esaminando il documento pubblicato il 4 dicembre, ma che reca la data del 18 settembre.
- 1. La rozzezza di un documento informe
Aristotele diceva che la “rozzezza” di una ricerca consiste nel non distinguere tra ciò che deve essere domandato e ciò che invece non deve essere domandato. Il testo che è stato pubblicato il 4 dicembre non ha una forma chiara. Da un lato si presenta come una lettera di un Cardinale al Papa, dall’altro si mostra come una sintesi ufficiale dei lavori della Commissione suddetta. Perciò oscilla tra un tono colloquiale e un tono ufficiale, senza trovare mai la sua identità più propria. Si parla al Papa, da parte del Presidente della Commissione, sulla base di alcuni “dati” provenienti dalla esperienza della I Commissione, dalla CTI e dall’esito negativo della indagine storica, segnalando che la decisione, tuttavia, deve essere assunta sul livello dottrinale. Ma si aggiunge, e questo è piuttosto singolare, che il materiale prodotto dalla Commissione è più ampio di quello che viene esposto nella lettera: “Preciso che le considerazioni che seguono sono inevitabilmente incomplete e frammentarie rispetto alla documentazione prodotta dalla Commissione da me presieduta.” Quindi dobbiamo intendere la lettera come la visione “personale” del Cardinale Presidente? In quale senso questa lettura personale può costituire un punto di riferimento effettivamente utile, non solo al Papa, ma al dibattito ecclesiae?
- 2. Le propoposizioni in votazione
Tuttavia, asserisce Petrocchi, i dati riferiti sarebbero indicativi del “terreno argomentativo su cui ci siamo inoltrati”. Proprio questo profilo “argomentativo” costituisce una specie di mistero. Le votazioni su cui si riferisce o riguardano posizioni già acquisite, o l’orientamento dei singoli membri a proposito di ipotesi diverse, ma senza alcun “terreno argomentativo”. Proprio questo sembra un segno di “rozzezza”: non si chiarisce, nel testo, quale fosse la argomentazione a sostegno di una parte o dell’altra. La tesi 5 resta semplicemente sulla posizione della 1 Commissione, aggiungendo soltanto quel piano dottrinale, che però lascia sostanzialmente aperto. D’altra parte viene aggiunta una tesi 7, che non riguarda il diaconato, ma i ministeri istituiti. Non è difficile raggiungere la unanimità quando si parla d’altro. Anche qui non si capisce la logica interna della presentazione, visto il mandato della Commissione, cui non era chiesto un pronunciamento su ciò che era già acquisito, ma su ciò che restava da acquisire in futuro. Confondere lex condita con lex condenda non è utile ad un lavoro di Commissione.
- 3. La documentazione e la sua lettura distratta
Fino a questo punto la Sintesi riferisce su ciò che è avvenuto fino al 2022. Poi si aggiunge la fase che potremmo chiamare “post-sinodale”, quando la Commissione è stata investita, direttamente dal Dicastero per la dottrina della fede e dal Sinodo, di raccogliere la ampia documentazione che i lavori sinodali avevano prodotto e/o sollecitato. Qui troviamo uno dei punti più deboli della Sintesi. In questa parte accadono alcune cose davvero preoccupanti, che indicano il livello di “rozzezza” che ha segnato forse la Commissione, ma sicuramente la relazione di Sintesi (Proprio per la natura ibrida del documento non è facile capire se ciò che viene riferito corrisponde a dati di fatto o dipende dalla interpretazione che il Presidente ne dà nel suo testo). Presento le principali perplessità:
- Il materiale pervenuto alla Commissione viene giudicato in termini di “rappresentanza ecclesiale”. Questo è strano. Se si devono considerare le argomentazioni, non si devono giudicare sul piano numerico, ma sul piano della capacità di convincere e di dire la verità. Se si esamina il fondamento dottrinale dell’accesso delle donne al diaconato, non lo si fa con un referendum. Al Concilio Vaticano II, Ratzinger o Rahner non intervenivano per “rappresentare”, ma per “chiarire”.
- Si fa riferimento al fatto che il Sinodo ha avuto grosse esitazioni sul tema e che la proposizione 60 della Sintesi sinodale ha avuto il maggior numero di voti contrari. Ma anche qui: che cosa c’entra questo con le argomentazioni? Si deve onorare la verità o si interpreta il ruolo della Commissione come incapace di una riflessione spassionata e veritiera?
- Il meglio però arriva quando vengono giudicate le posizioni favorevoli alla ordinazione delle donne al diaconato, che vengono ridotte a “ideazioni di antropologia teologica” e addirittura vengono definite «spesso in conflitto con la Tradizione della Chiesa cattolica (e ortodossa) di ammettere al sacramento dell’Ordine solo uomini battezzati.» Ma come può il Presidente di una Commissione, chiamata a discernere sulla ammissione delle donne al diaconato, definire la posizione cattolica semplicemente indentificandola con la “riserva maschile”? Se si studia è perché una altra possibilità si apre. Qui la rozzezza, ossia la mancanza di chiarezza sulla questione di fondo, appare al massimo grado. Si usa come “criterio” ciò che dovrebbe essere oggetto del discernimento. E non vi è nessuna traccia del cambiamento culturale nella considerazione della autorità femminile, già riconosciuto nel 1963 da Giovanni XXIII.
- Si procede poi ad identificare le principali argomentazioni, con un elenco piuttosto freddo e distaccato delle principali argomentazioni, ridotte all’osso.
- Viene poi il giudizio sulle donne che hanno scritto molti dei contributi giunti alla Commissione. Qui si leggono parole in cui la rozzezza torna a superare i limiti di guardia. Questo testo, per la sua gravità, merita di essere citato integralmente:
«Nella documentazione arrivata, letta con attenzione, molte donne hanno descritto il loro lavoro per la Chiesa, spesso vissuto con grande dedizione, come se fosse un criterio sufficiente per l’ordinazione al diaconato. Altre hanno parlato di una forte “sensazione” di essere state chiamate, come se fosse la prova necessaria per garantire alla Chiesa la validità della loro vocazione ed esigere che questa convinzione sia accolta. Molte svolgevano già funzioni di tipo diaconale, soprattutto in comunità prive di sacerdote, e ritenevano di essere “meritevoli” di ricevere l’ordinazione, avendone, in qualche modo, acquisito il diritto. Altre parlavano semplicemente di volere l’ordinazione come segno di visibilità, autorevolezza, rispetto, sostegno e soprattutto uguaglianza»
Non è difficile leggere il livello di pregiudizio con cui le istanze presentate da teologhe competenti vengono ridotte motivazioni personali discutibili, a pretese di veder riconosciuto il proprio lavoro, alla “sensazione” di essere state chiamate, di meritare il riconoscimento di una funzione già svolta, quasi acquisendone il diritto e come pretesa di visibilità. Questa sistematica riduzione di una teologia dell’accesso delle donne al diaconato ad una “pretesa soggettiva” non fa onore alla Commissione e/o al suo Presidente, non essendo chiaro se queste sono considerazioni comuni o illazioni del card. Petrocchi. Questo passaggio offende le donne che da decenni studiano seriamente la questione.
6. Subito dopo questa analisi parziale e distorta dei contributi ricevuti, con una giravolta incredibile e con una mancanza di tatto veramente notevole si cambia registro e, come se la Commissione non avesse letto nulla di ciò che ha ricevuto, si scrive così:
«In una linea di pensiero molto diversa, nello sviluppo della terza Sessione, è stata avanzata la seguente tesi:
“La mascolinità di Cristo, e quindi la mascolinità di coloro che ricevono l’Ordine, non è accidentale, ma è parte integrante dell’identità sacramentale, preservando l’ordine divino della salvezza in Cristo. Alterare questa realtà non sarebbe un semplice aggiustamento del ministero ma una rottura del significato nuziale della salvezza”.»
Questo testo, che sembra calare dall’altro e non avere né padre né madre, irrompe certamente da una “linea di pensiero molto diversa” e viene sottoposto a votazione, lacerando esattamente a metà la Commissione. Qui molte cose non tornano e il grado di rozzezza della Sintesi raggiunge sicuramente il suo apice. Le due frasi di cui si compone la proposizione messa ai voti sono un distillato di ideologia maschilista, che confonde la mascolinità di Cristo con quella del ministro, che sovrappone la pratica tradizionale con la necessità sacramentale e che arriva ad identificare la dimensione nuziale della salvezza con il sesso maschile del ministro. Un disastro di argomentazione, che polarizza la stessa Commissione. La quale, solo nell’ultimo passaggio, si ricompatta chiedendo all’unanimità l’ampliamento dell’accesso delle donne ai ministeri istituiti. Niente male come via di fuga. Peccato che questo non era un argomento su cui studiare.
- 4. In conclusione
Alla fine del testo il Card. Petrocchi esordisce con una frase molto singolare: “Aggiungo un commento personale dopo essermi con cura informato (anche grazie al contributo dei miei Collaboratori) sulle principali tendenze concettuali emergenti nell’ingente materiale come anche nei testi redatti dalle diverse Commissioni.” Occorre chiedersi che cosa voglia dire “essersi informato con cura sulle principali tendenze concettuali”? Non ne ha parlato fino ad ora già con una sua sintesi personale? Allora egli ricostruisce due fronti di interpretazione del diaconato, su cui dice che non è possibile decidere. E perciò rimanda alla decisione prudenziale di non decidere, mettendo però in campo, contemporaneamente un ampio lavoro sul diaconato “in se stesso”, per il quale occorrerebbe (solo ora) parresia e libertà evangelica. In tutta la Sintesi non vi è traccia di parresia, si usano i pregiudizi più pesanti verso le donne “autoreferenziali”, ma poi, un attimo prima di chiudere, un bell’inno alla parresia e alla libertà sembra proprio quello che ci vuole. Un finale davvero consolante.
Non ci si può stupire se ci si chiede perché mai sia nata una ribellione di fronte a questo modo paternalistico e clericale di impostare la discussione. Certo vi è una differenza tra il lavoro della Commissione e la Sintesi proposta dal Card. Petrocchi nella sua lettera. Di certo vi è questo: con una impostazione così “rozza”, nel senso aristotelico del termine, non si potrà fare un solo passo nella direzione di una vera ricerca ecclesiale sull’accesso delle donne al diaconato, come grado del ministero ordinato. Queste ricerche hanno bisogno di quel rigore nel domandare e nel distinguere, che non appare in alcun modo dalle fumose pagine della lettera qui commentata, sul cui valore magisteriale è legittimo dubitare.






























Area personale










