Chi contesta il Vaticano II accusa di odio chiunque lo difende. Su un intervento di P. R. Spataro


Pubblico sul mio blog questa risposta a Roberto Spataro, che ha scritto un testo per il blog di Messainlatino (qui), tentando di criticare il mio post sulla “invenzione della forma straordinaria” (qui). Purtroppo l’amico Luigi Casalini mi dice che non può pubblicare su “messainlatino” la mia risposta, dato che io ho detto che la chiusura (provvisoria) del loro sito per “hate speech” era giustificata. Essendo stato uno di quegli autori ripetutamente insultati nei commenti (e talora anche nei testi), continuo a ritenere che un sito, in cui si permette di insultare chi dissente e dove gli amministratori non fanno nulla per moderare i commenti e i contributi, possa incorrere in sanzioni. Questo non mi impedisce di rispondere punto per punto alle critiche e di preoccuparmi se i siti tradizionalisti si rivelano incapaci di confronto e preferiscono chiudersi nella autoreferenzialità dei loro discorsi. Il confronto fa bene a tutti, purché avvenga sul piano della ragione comune e senza trabocchetti.

Ma veniamo a P. Spataro, con il quale già in passato ci siamo già confrontati. Le sue critiche sono piuttosto fragili, perché non toccano il centro della questione e, seppur con uno stile in apparenza molto rispettoso, insinuano giudizi del tutto errati e piuttosto pesanti. Ecco i tre punti fondamentali da confutare:

1. Egli parla della mia “implacabile avversità” verso la forma straordinaria. Non si può parlare di ciò che non esiste. Essendo la “forma straordinaria” una invenzione del 2007, abrogata nel 2021, prendo semplicemente atto della realtà e invito tutti ad essere realisti. Anche se il vestito nuovo del re viene commentato da molti, e ritenuto anche elegante, io mi prendo la responsabilità di dire che il re è nudo. Viceversa P. Spataro propone una diversa denominazione della stessa cosa, ossia “usus antiquior”, attribuendo arbitrariamente al termine antiquior non il significato proprio, ma un significato traslato: sarebbe il rito “più importante”. Ma così facendo egli usa il latino in modo scorretto. Antiquior significa “precedente”. Il rito precedente non è più in uso se il rito romano ha elaborato un rito successivo. Spataro percepisce qui un “odium theologicum”, solo perché io dico le cose papali papali, senza giri di parole. Nelle mie parole non c’è nessun odio, c’è il tentativo di pensare rigorosamente la tradizione. La cosa curiosa è che per Spataro, dicendo la verità, io introduco “contrapposizioni aspre”. Mentre lui, arrampicandosi sugli specchi, produrrebbe pace. Io contesto questa lettura fittizia e ideologica. Le contrapposizione nascono dalla confusione di chi pensa che contemporaneamente possano essere vigenti, nella stessa Chiesa, due forme concorrenti del medesimo rito. Chiederei al P. Spataro di confutare questa posizione, non di farmi la predica come un padre spirituale.

2. In secondo luogo P. Spataro cerca di mostrare come la considerazione pastorale della questione ne cambierebbe il significato e arriverebbe a riconoscere come discutibile e tediosa la mia posizione. Non esiste alcuna possibilità di squalificare come accademica una posizione che riflette sul piano dottrinale e sistematico. Il rito preconciliare è stato riformato e non esiste più: questo ha detto in modo sacrosanto e tradizionale “Traditionis custodes”. Questa è la “doctrina antiquior”. Ogni pastorale possibile (della penitenza come del matrimonio, della eucaristia come della unzione) si deve impostare con gli ordines riformati, non con i precedenti ordines, che non sono migliori, ma peggiori, perché così ha stabilito il Vaticano II e la riforma ad esso successiva, che nessuno può considerare come un colpo di mano contro la tradizione. Ogni spazio di lavoro pastorale ha questa unica base rituale. Chi dice una cosa diversa deve cercare di provarla. Chi ci ha provato, negli ultimi 20 anni, ha generato non maggiore pace, ma maggiore divisione. “Tutti, tutti tutti”, come slogan del pontificato di Francesco, si può dire solo nel rito riformato, non nel rito precedente. Usare il pontificato di Francesco per avvalorare scelte tradizionalistiche è una forma di fraintendimento grave, che non si può in nessun modo approvare, senza diventare irresponsabili.

3. Non poteva mancare la nota stonata della accusa di “hegelismo”. Fare i conti con la storia non viene da Hegel, ma dal Concilio Vaticano II (che tiene conto anche del fatto che l’idealismo non è soltanto un errore). La attenzione alla storia permette di parlare di “sviluppo organico” della liturgia. I “segni dei tempi” sono le tracce di una coscienza storica, che permette al Vangelo di scoprire nuove realtà e nuove sfide. Come ha messo in chiaro per la prima volta papa Giovanni nell’ultima sua enciclica, di fronte ai segni dei tempi la Chiesa ha anche qualcosa da imparare. Noi, con la forza di una indagine storica e con una migliore riflessione dottrinale, abbiamo potuto riconoscere i limiti della liturgia tridentina e ne abbiamo elaborato la riforma. Questo non è Hegel, ma Vaticano II. Per questo chi vuole rifugiarsi nella liturgia precedente non fa un atto di antimodernismo contro Hegel, ma fa un atto di rifiuto del Vaticano II, che diventa molto problematico e crea un conflitto che non si può mascherare sotto le vesti vecchie e logore della lotta contro il modernismo.

4. Aggiungo un piccolo punto, per ampliare la visione un poco edulcorata proposta da P. Spataro. Quelli che “volevano la pace ecclesiale” hanno usato il “rito precedente” come un criterio di ordinazione dei vescovi. Se non eri disponibile a celebrare con un rito che di fatto contesta la riforma liturgica, e non eri sensibile alla sua diffusione, non potevi diventare vescovo. Tra le domande per valutare un candidato una “nuova” su questo punto era stata aggiunta al questionario che si inviava per la inchiesta da parte della Congregazione dei Vescovi. Così è stato tra il 2008 e il 2018, per almeno un decennio. Qui si vede con chiarezza quanto “pacificante” volesse essere la reitroduzione di un rito non più vigente da 40 anni, utilizzato addirittura per orientare in modo distorto anche le ordinazioni episcopali.

5. Per finire, una nota sulla “pace liturgica”: molti si affannano a fare pressioni su papa Leone, chiedendo una “pacificazione”, che secondo loro avverrebbe concedendo di nuovo una certa libertà di utilizzare il VO. In realtà papa Leone sa bene che questa richiesta aprirebbe una nuova guerra, introducendo, di nuovo, un parallelismo tra forme che si escludono reciprocamente e che dividono le comunità. Solo un lavoro serio sull’unica forma vigente può essere capace di generare una vera pace, in cui ognuno si riconosca con le proprie diversità legittime, all’interno dell’unica forma comune. Come ha scritto in modo impeccabile papa Francesco nel n.61 di Desiderio desideravi:

Non possiamo tornare a quella forma rituale che i Padri conciliari, cum Petro e sub Petro, hanno sentito la necessità di riformare, approvando, sotto la guida dello Spirito e secondo la loro coscienza di pastori, i principi da cui è nata la riforma. I santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II approvando i libri liturgici riformati ex decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II hanno garantito la fedeltà della riforma al Concilio. Per questo motivo ho scritto Traditionis Custodes, perché la Chiesa possa elevare, nella varietà delle lingue, una sola e identica preghiera capace di esprimere la sua unità.  Questa unità, come già ho scritto, intendo che sia ristabilita in tutta la Chiesa di Rito Romano.”

Se il P. Spataro vuole contestare la mia lettura della “forma straordinaria” come di una infelice invenzione, deve provare a smontare il ragionamento di fondo e contestare anche queste parole che ho citato, senza fare insinuazioni sul mio “odio teologico” (che è solo ragionamento e argomentazione lineare), sulla evocazione della inclusione di papa Francesco per promuovere un rito escludente, e infine sul pericolo di hegelismo, che è solo una scusa, piuttosto forzata, per non fare i conti con la storia, con lo sviluppo organico del rito romano e con le necessarie discontinuità che sempre la tradizione ha conosciuto e persino preteso.

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