Leone XIV e la de-polarizzazione. Liturgia, autorità femminile e diritti delle persone omosessuali
“Perché solo gli uomini e non le donne possono essere investiti del sacerdozio?…Cristo, dando alla Chiesa la sua fondamentale costituzione, la sua antropologia teologica, seguita poi sempre dalla tradizione della Chiesa stessa, ha stabilito così”
Paolo VI, Il ruolo della donna nel disegno di Dio, 1977.
“L’attività omosessuale non esprime un’unione complementare, capace di trasmettere la vita, e pertanto contraddice la vocazione a un’esistenza vissuta in quella forma di auto-donazione che, secondo il Vangelo, è l’essenza stessa della vita cristiana. Ciò non significa che le persone omosessuali non siano spesso generose e non facciano dono di se stesse, ma quando si impegnano in un’attività omosessuale esse rafforzano al loro interno una inclinazione sessuale disordinata, per se stessa caratterizzata dall’autocompiacimento”.
Congregazione per la Dottrina della fede, Homosexualitatis Problema, 1986
Superare la polarizzazione appare uno dei compiti che papa Leone XIV considera prioritari, almeno da quanto risulta dalla pubblicazione di estratti del suo libro-intervista: in particolare questo sembra riguardare le questioni che ruotano intorno alla liturgia e alla sessualità. Alcuni esempi liturgici di depolarizzazione possono essere utili per capire che cosa è in gioco nel “depolarizzare”.
La questione di una dottrina cattolica sulla sessualità (pensata essenzialmente come compito di generazione) e sulla omosessualità (pensata come peccato di autocompiacimento contro la castità) influisce profondamente sul modo di considerare il sesso e il genere. Qui una identità “polarizzata” e una condotta “polarizzata” fanno il paio con una depolarizzazione dei sessi e una depolarizzazione delle pratiche. Può essere interessante studiare la polarizzazione come un elemento costitutivo della “società dell’onore” e la depolarizzazione come processo necessario per edificare una “società della dignità”. La polarizzazione nasce da una “differenza” e da una “preferenza” che si ipotizza regga la società e su cui non si può mai deflettere. La de-polarizzazione produce una “indifferenza” che si può confondere sia con il relativismo, sia con la tolleranza. L’ideale di una “depolarizzazione non indifferente” resta un compito arduo, non senza contemplare fenomeni di inversione delle polarità, con forme di recupero di mediazioni sapienziali nella inerzia della società dell’onore e con manifestazioni di immediatezze senza sconti nella imperante società della dignità. Studiare la dignità della donna nello spazio pubblico e l’esercizio della sessualità al di fuori del matrimonio è la sfida a due evidenze della società chiusa (la donna soggetta al primato maschile e la sessualità da esercitare solo nel matrimonio) che hanno rappresentato un principio oggettivo della struttura sociale e che la tradizione cattolica ha identificato per secoli con la rivelazione di Dio, con il compito civile e con la vocazione naturale. La confusione tra “depositum fidei” e “norma sociale” è ingente, strutturale e permane come una tentazione diffusa. La polarizzazione che ne deriva è solo in apparenza una difesa della identità religiosa: in realtà difende un assetto sociale e culturale che si perpetua ciecamente e spesso violentemente. Per dirlo in breve, quasi come una tesi: la depolarizzazione accade se il depositum fidei sa essere norma vivente, ossia interpretazione dei monumenta e documenta del passato alla luce dei “segni dei tempi” e i “segni dei tempi” colti in rapporto ai monumenta e documenta del passato1. Una sana tradizione rimedia ad una tradizione malata. Anche a costo di correggere a fondo traduzioni del Vangelo profondamente incrostate da rappresentazioni antropologiche e ecclesiologiche dipendenti da concezioni superate sulla donna e sulla sessualità. L’aggiornamento delle categorie con cui lavora l’ermeneutica teologica della tradizione è una condizione insuperabile per una effettiva depolarizzazione. La questione non è “cambiare la dottrina”, ma rileggere la dottrina nella sua sostanza nutriente, lasciando cadere le formulazioni compromesse dal pregiudizio. Depolarizzare comporta sempre un lavoro sulla dottrina.
1. La “de-polarizzazione” teologica e il conflitto da gestire
Inizio da un ricordo, ossia da una lezione di quasi 25 anni fa del prof. Pieluigi Consorti, che a S. Anselmo intervenne in una giornata dedicata alla pace, in occasione della 2^ guerra del Golfo (2003). In quella occasione il prof. Consorti disse una cosa molto interessante, che non ho più dimenticato. Più o meno suonava così:
“La guerra viene confusa con il conflitto. E la si chiama persino “conflitto”. In realtà le guerre sono il frutto di un conflitto che non riesce più ad essere gestito. La guerra è la degenerazione di un conflitto. Bisogna imparare a gestire i conflitti in modo non bellico.”2
Vorrei partire da questa affermazione per parlare di tutt’altro tema, ma dentro ad un “mare di conflitti”. Quando i conflitti si “de-polarizzano”, allora si trovano le soluzioni. Ma de-polarizzare è un’arte difficile. Forse proprio in campo teologico produrre depolarizzazione è l’arte più antica, ma anche la più difficile. Forse sono stati i teologi i maestri di una de-polarizzazione che riguarda niente meno che Dio e uomo, natura umana e natura divina, pane e corpo, vino e sangue. Quanta arte di “de-polarizzazione” abbiamo speso, con stili diversi, lungo la storia. Non ci ha impedito i conflitti, le lotte, le condanne al rogo o le scomuniche. Ma ha mirato ad elaborare la tradizione con finezza, “pro bono pacis”. Per produrre quel monumento di sapere de-polarizzato che chiamiamo “teologia”, la Chiesa ha accettato la regola della “distinzione”: mediante opportune distinzioni la custodia del depositum fidei può gestire gli inevitabili conflitti che si creano lungo la storia.
Faccio un esempio, che prendo da una predica domenicale. Un parroco (non il mio), riferendosi alla eucaristia, ha detto qualche tempo fa: “questo non è pane, ma è Corpo di Cristo”. Questa frase mi pare un esempio di “polarizzazione” che inizia con la domanda di un re, il nipote di Carlo Magno, Carlo il Calvo, che pose nel IX secolo questa domanda: “alla comunione quello che riceviamo è il corpo e sangue di Cristo in veritate o in misterio”? La domanda apre ad una “polarizzazione” potenzialmente distruttiva, perché oppone ciò che deve essere coordinato. Ma come si fa a rispondere correttamente a Carlo il Calvo senza polarizzare? Per 400 anni i teologi hanno lavorato, in occidente, per mettere a punto una risposta il più possibile de-polarizzata. Che è poi quella che chiamiamo “teoria della transustanziazione”. In estrema sintesi, e non senza poter conservare dubbi sulla efficacia attuale di quella grande risposta, si tratta di un modo elegante per affermare che l’eucaristia “è” pane e vino ed “è” corpo e sangue, ma a due diversi livelli dell’essere. Quindi è sbagliato dire “è” e “non è”, ma conviene affermare altrimenti l’essere, che appunto “si dice in molti modi”3. Per dirla con un grande teologo medievale: “è pane e non è pane, è lo stesso corpo e non è lo stesso corpo” (Lanfranco).
2. La questione sessuale a partire dal XIX secolo
Veniamo ora al luogo forse di massima polarizzazione dell’ultimo secolo, ovvere il “sesso”4. Oggi sulla sessualità dobbiamo fare un lavoro molto simile a quello che è avvenuto 1000 anni fa, sul piano della “dottrina eucaristica”. Siamo di fronte ad un cambiamento culturale, esattamente come avvenne alla fine del I millennio per il mutamento simbolico di quell’epoca. La domanda di Carlo il Calvo, per Agostino o per Ambrogio appariva senza senso. Addirittura in Ambrogio la espressione della “presenza del Signore” viene concepita e comunicata usando con tranquillità la espressione “figura”. Che il pane sia “figura” del corpo di Cristo è per Ambrogio affermazione di realtà. Il grande lavoro di “depolarizzazione” che la teologia eucaristica ha dovuto compiere, a partire dal IX secolo, è scaturito proprio da una nuova “opposizione polare” emersa dalla cultura, che iniziava a pensare una contraddizione tra figura e verità.
Mutatis mutandis, a partire dal XIX secolo, la rilettura della sessualità avviene almeno su tre piani, che si intersecano, e che introducono fattori di “polarizzazione” estrema. Sono elementi di quella “svolta antimodernista” che ha caratterizzato la teologia cattolica dalla fine del 800 fino ad oggi. Vediamo i punti-chiave del fenomeno:
– la donna inizia ad essere letta sul piano biologico come “generatrice” al pari del maschio
– la donna acquisisce un ruolo nello spazio pubblico
– muta il rapporto tra maschile e femminile nella famiglia, nel lavoro, nella cultura e parzialmente nella Chiesa
Questo cambiamento avviene sul piano della scienza e della coscienza, ma viene giudicato dalla cultura ecclesiale secondo modelli rigidi di “dottrina naturale” e di “dottrina morale”. La sfasatura tra la entità del cambiamento e le risorse per rispondervi si apre a forbice e crea una distanza di linguaggio e di percezione sempre maggiore. Così la lettura del “sesso” (sia come figura identitaria del femminile, sia come esercizio della sessualità di entrambi i generi) si blocca in una visione tipica della società chiusa: anzitutto si ritiene che sia la natura (e Dio che l’ha creata) ad aver collocato la donna in un “ruolo” e in una “identità” che la cultura moderna, con nuove e inaudite menzogne, vuole sovvertire. Ogni “cambiamento sociale” viene percepito come “sovversione” dell’ordine voluto da Dio. Di qui la donna viene giudicata sul piano “morale” e il cambiamento di “ruolo” (nello sport o nella politica, nel lavoro o nella cultura) viene percepito come “disordinato” e moralmente non conforme al bene della donna e al bene comune. Ovviamente questo giudizio ricade anche anche sulla sessualità e sul suo esercizio, come conseguenza di un assetto culturale e sociale in cui la subordinazione della donna all’uomo implica una profonda differenziazione dell’esercizio della sessualità maschile e femminile. Sarebbe sufficiente leggere la lunga parabola del “magistero sul matrimonio”, che inizia nel 1880 con Arcanum divinae sapientiae di papa Leone XIII, per arrivare al 2016 con Amoria Laetitia di papa Francesco, per scoprire quanto la logica di polarizzazione (di carattere teologico, ma anche sociale, politico e morale) abbia segnato in larga parte il magistero, anche se non ha impedito, intorno al Concilio Vaticano II, la irruzione di nuove logiche, attende ad una considerazione nuova dei soggetti implicati5. Un livello su cui la depolarizzazione ha funzionato bene è la “forma rituale” del rito del matrimonio. Qui la tradizione cattolica degli ultimi secoli aveva “riti inequivoci” che oggi abbiamo dimenticato sul piano rituale, ma che hanno lavorato molto profondamente sul piano culturale, contribuendo ad una polarizzazione estrema. Consideriamo meglio questa recente evoluzione come un caso di de-polarizzazione.
3. La evoluzione del rito del matrimonio: un caso esemplare
Un primo sguardo alla questione deve iniziare da un passaggio storico fondamentale: ossia il decreto Tametsi (1563) con cui il Concilio di Trento determina una totale assunzione di competenza della Chiesa cattolica sul fenomeno “matrimonio” in Europa6. Nel “rito del matrimonio” che viene compilato nel 1614, e che diventerà normativo nella Europa cattolica per 350 anni, accadono due fenomeni paralleli della massima importanza:
– da un lato, il rito del matrimonio del 1614 recepisce la novità del 1563: ossia trasferisce “nel cuore della celebrazione” il consenso esplicito di ciascun coniuge e il sorgere del vincolo; questo primo elemento contribuisce a creare una cultura della eguaglianza e della libertà, che deriva da una grande intuizione della canonistica medievale;
– il rito, però, aggiunge anche il “rito dell’anello”, che oggi chiamiamo “scambio dell’anello”, ma che dal 1614 al 1969 non è stato affatto uno “scambio”. Il prete benediceva l’anello, che poi lo sposo metteva al dito della sposa. E qui finiva il rito. Negli anni 50, quando la “polarizzazione” tra visione ecclesiale e visione civile era aumentata largamente – a causa del sorgere di nuove forme di vita e di riconoscimento di diritti delle donne – la reazione ecclesiale fu di “vietare che si benedica e si usi un ‘secondo anello’”, ossia quello per il marito (cosa che non impedì prassi diverse già allora).
Per una evoluzione interna dovuta al mutamento del contesto culturale e sociale, la “forma rituale” del matrimonio si era caricata di una nuova polarizzazione, dovuta alla inerzia di forme ecclesiali maturate in contesti sociali e culturali pre-moderni. Questa “inerzia” conosceva anche un terzo elemento, la “benedizione della sposa”, che non faceva parte del rito del matrimonio, ma della “messa per gli sposi” e che era subordinata alla “onorabilità” della donna (che non convivesse già con il marito).
Solo nel nuovo rito del 1969 il rito dell’anello diventa “scambio degli anelli” e la benedizione diventa benedizione “degli sposi”. Dalla consegna, presa di possesso e benedizione della sposa precedente, si passa al “patto paritario”, che il diritto aveva già concepito e fissato nel medioevo, ma che le pratiche sociali e rituali avevano lasciamo ai margini, per privilegiare la logica “di onore”. In un certo modo vediamo che la logica di onore e la logica di dignità convivevano nel rito tridentino e non creavano problemi finché la società tradizione ha potuto pensare ed agire sulla base della strutturale differenza gerarchica tra maschile e femminile. La polarizzazione cresce a dismisura nel momento in cui la società elabora una “forma di vita” basata sulla “comune e libera dignità” piuttosto che sul “particolare e vincolato onore”. Questo passaggio tra “paradigmi sociali e culturali” merita ora uno specifico approfondimento, per capire meglio in che modo oggi alla chiesa è aperta la via ad un de-polarizzazione strutturale del proprio sapere e della propria esperienza.
4. Società dell’onore e società della dignità
Ora vorrei brevemente approfondire una coppia di concetti che Ch. Taylor ha elaborato già negli anni ‘80: ossia la differenza tra “società dell’onore” e “società della dignità”7 . Credo che una gran parte delle questioni che viviamo come “polarizzazioni” siano legate al passaggio da un “ordine mentale e sociale dell’onore” ad un “ordine mentale e sociale della dignità”. Prima di approfondire direttamente sul testo di Taylor questa distinzione, anticipo alcune considerazioni preliminari. La società dell’onore vive di “differenze”, mentre quella della dignità vive di “uguaglianze”! Questo è il punto-chiave. Nella prima società ognuno è riconosciuto “per la sua differenza”, mentre nel secondo “per la pari dignità”. Per le tradizioni antiche, che si sono alimentate di queste differenze strutturate, e che hanno creato “uniformità di differenze gerarchiche”, l’irrompere del nuovo mondo, inaugurato dalle “tre rivoluzioni” è un trauma impressionante. Tocqueville che legge la Rivoluzione in America è una delle prime voci ad esprimere questo stupore.
La lucida intuizione di Taylor osserva che nella società dell’onore non c’era bisogno di riconoscimento. Si era riconosciuti diremmo automaticamente. Il soggetto era sempre “controllato”. Nella società dell’onore non vi è mai indifferenza. Le differenze volute e quelle combattute tendono alla uniformità sociale. Perciò il fenomeno è che nella “società della dignità” i soggetti hanno un nuovo e inedito bisogno di riconoscimento.
Ma vi è di più. E’ interessante osservare una dinamica interna alle due società:
– la società dell’onore – presuppone e struttura le “differenze” – ma produce uniformità
– la società della dignità – presuppone e struttura “pari dignità” – ma produce differenze
La società della dignità prova a pensare e a realizzare un mondo in cui tutti sono uguali e ognuno è diverso. Il fatto che una delle definizioni del dogma trinitario sia percepita come “cosa ovvia” crea non pochi problemi, sia per le aspettative del sé, sia per il riconoscimento degli altri.
Ma esaminiamo più direttamente ciò che dice Taylor, nel sul libro Il disagio della modernità. Credo che questo potrebbe essere un primo orizzonte in cui collocare il cambiamento di considerazione che anche la Chiesa cattolica sta elaborando sul sesso, nei due sensi che abbiamo precisato. Se anche nella Chiesa si dischiude la possibilità di un giudizio equilibrato sulla “società aperta”, così come inaugurato dal Concilio Vaticano II, è possibile identificare tale apertura come una rilettura di due concetti-chiave del mondo contemporaneo: individualismo e autenticità. Per capire la differenza tra società dell’onore e società della dignità occorre soffermarsi brevemente su questi due concetti.
a) La prima cosa che occorre approfondire, per uscire da luoghi comuni che attraversano frequentemente la impostazione della dottrina cattolica, è una sorta di radicale sospetto nei confronti dell’individualismo, spesso ridotto ad una “assenza di morale” e a “relativismo”. Ma l’idea di “auto-realizzazione” che sostiene l’individualismo presuppone una forza morale. Merita leggere una preziosa nota con cui Ch. Taylor precisa bene i termini della questione:
“Di individualismo si è di fatto parlato in due sensi completamente diversi. In una accezione esso è un ideale morale […]. In un’altra, si tratta di un fenomeno amorale, di qualcosa che assomiglia a ciò che intendiamo per egoismo”8
L’autenticità è un ideale morale che deve essere preso sul serio e che sta, non di rado, alla radice di fenomeni complessi, che facilmente possono essere letti invece semplicemente come “cedimento all’egoismo”. Senza negare la radice dialogica di ogni identità, e quindi uno strutturale rapporto del sé con gli altri per il suo stesso costituirsi, la ricerca di sé e il “conosci te stesso” resta una qualificazione decisiva per capire il nostro tempo, con tutto ciò che questo comporta nella rilettura della sfera intima e sessuale di ogni soggetto.
b) In un secondo passo, Taylor illustra con molta efficacia una piccola storia delle “fonti della autenticità” (a cui appartengono Agostino, Rousseau e Herder) da cui scaturisce a partire dalla fine del XVIII secolo e che assume le forme della autodeterminazione e dell’essere pienamente se stessi. Ecco un bel testo in cui Taylor illustra questo ideale nuovo:
“Essere fedele a me stesso significa essere fedele alla mia propria originalità, la quale è qualcosa che io solo posso articolare e scoprire. […] E’ questa l’idea che fa da sfondo al moderno ideale della autenticità e agli obiettivi di auto-appagamento o auto-realizzazione che ne concretano solitamente la formulazione. Ed è questo lo sfondo che conferisce forza morale alla cultura della autenticità.”9
Il rischio è che questa “forza morale”, che spinge verso la autenticità di sé, si formalizzi nella idea di una semplice “posizione di sé”, ossia di una vuota autodeterminazione, senza orientamento di senso che non sia se stessa. Di qui viene, essenzialmente, una nuova domanda di riconoscimento, che è costitutiva e inedita, proprio all’interno di una società che punta sulla realizzazione individuale. La società in cui sorge una nuova urgenza di riconoscimento è caratterizzata da due fenomeni:
– si dissolvono le gerarchie sociali, che erano la fonte dell’”onore” nella società dell’ancien régime, nella quale l’onore è intrinsecamente legato alle diseguaglianze. L’onore è di qualcuno che è differente, non è di tutti. Taylor cita la definizione che Montesquieu dà di onore: “La nature de l’honneur est de demander des préférences et des distinctions”. Dice Taylor “l’onore è una faccenda di preferenze”10. L’onore è una differenza e non è universale.
– la moderna nozione di “dignità”, invece, ha significato universalistico e egualitario, perché è intrinseca a tutti gli esseri umani o a tutti i cittadini. L’affermarsi della “dignità universale” diventa così il principio della società democratica e comporta una emarginazione progressiva del concetto di “onore”, fino quasi alla sua incomprensione.
Questo duplice modello di identità del soggetto modifica profondamente il modo con cui ciascuno viene riconosciuto e si sente riconosciuto. Mentre l’onore di cui ognuno può godere per una “differenza”, assume sempre una visibilità, la dignità universale, nella sua invisibilità, crea un problema nuovo alle forme del riconoscimento. Nella società dell’onore la differenza è sempre riconosciuta perché è un “dato sociale”, mentre nella società della dignità la eguaglianza fatica ad ottenere riconoscimento, perché induce una elaborazione individuale che non appare. La identità nella società dell’ancien regime è posta socialmente e così immediatamente riconosciuta. La identità nella nuova società poggia su una dignità che non ha evidenza. Di qui la fondamentale affermazione, che assume anche un valore decisivo per la teologia:
“Quel che è nato con l’età moderna non è il bisogno di riconoscimento, ma le condizioni nelle quali questo può non verificarsi. E appunto per questo del bisogno si parla ora esplicitamente per la prima volta. In epoca premoderna, nessuno parlava di ‘identità’ o di ‘riconoscimento’. E non perché le persone non avessere (quelle che chiamiamo) identità, o perché queste dipendessero dal riconoscimento, ma invece perché erano qualcosa di troppo ovvio e pacifico per venire tematizzate in quanto tali”11
Questo sviluppo, che è insieme culturale e sociale, determina un profondo cambiamento nel rapporto con la propria identità personale, intima, sessuale ed anche religiosa. Anche il modo di pensare il “disegno di Dio” sull’uomo subisce una profonda rilettura, dovendo ora presentarsi non semplicemente nello stile di una “società dell’onore” che è “societas inaequalis”, ma anche in quello di una “società della dignità”, che è “societas aequalis”! Non è un caso che l’impatto della tarda modernità sulla esperienza ecclesiale cattolica sia stata tematizzata, apologeticamente, nei termini di una difesa della “societas inaequalis”. Tentare di “salvare il fenomeno del Vangelo” aggrappandosi alla società dell’onore è stata una soluzione che perdura: per alcuni, anche oggi, l’unica fedeltà al vangelo, anche in ambito sessuale, nel considerare le donne o le forme di relazione non eterosessuale, significa restare catturati nelle logiche di onore e non capire le logiche di dignità. Vediamo infine che cosa significa in termini di dottrina e di disciplina.
5. Tommaso d’Aquino, i “diversi” e la de-polarizzazione del sesso
Un buon esempio, per capire la diversità del nuovo paradigma in ambito teologico, può essere tratto da un testo con cui S. Tommaso d’Aquino fotografa in modo formidabile le evidenze di una “società bene ordinata” come “società dell’onore”. E’ il noto testo in cui Tommaso descrive gli “impedimenti alla ordinazione”. Esso è tratto dal Supplementum alla Summa Theologiae, q39, a1. La questione 39 ha per titolo De impedimentis huius sacramenti ( Sugli impedimenti di questo sacramento), mentre l’articolo 1 ha per titolo Utrum sexus femineus impediat ordinis susceptionem (Se il sesso femminile impedisca di ricevere l’ordine).
La questione generale delinea il quadro di coloro che sono “senza autorità”: tratta infatti delle donne (1) dei bambini (2) degli schiavi (3) degli assassini (3) dei figli illegittimi (4) e dei disabili (5). Per ognuna di queste categorie Tommaso cerca se l’impedimento sia “de necessitate sacramenti” o solo “de necessitate praecepti”. Si definisce così uno spazio civile ed ecclesiale, nel quale la differenza dal maschio adulto e libero, nato da matrimonio legittimo, non condannato da tribunali, di sana e robusta costituzione costituisce una “questione” per la assunzione della autorità. L’ “antropologia sociale” del medioevo viene utilizzata da Tommaso come luogo di accurata differenziazione argomentativa. In questo orizzonte di antropologia sociale viene discussa anche la questione del rapporto tra “sesso femminile” e “autorità”.
Tommaso infatti, dopo aver ricordato nel “videtur quod” che si danno forme di “profezia”, di “martirio” e di “autorità spirituale” riferibili anche alle donne, nel “corpus” propone la sua argomentazione centrale. La esclusione della possibilità di ordinare soggetti di sesso femminile è “ex necessitate sacramenti”, spiega Tommaso, perché il sacramento deve essere anche “segno” della “res” che dona. Ora “nel sesso femminile non può essere significata una ‘eminenza di grado’, poiché la donna ha una condizione di soggezione e perciò non può ricevere il sacramento dell’ordine” (Suppl, 39, 1, c).
Ciò che Tommaso intende come “ex necessitate sacramenti” non è dunque una argomentazione cristologica, ecclesiologica o pneumatologica, ma solo il supporto teorico culturale di quello che oggi riconosciamo come il pregiudizio sociale della strutturale inferiorità della donna rispetto all’uomo. Assumere come principio sistematico decisivo un pregiudizio di antropologia sociale medievale non appare risolutivo per affrontare la questione della ordinazione delle donne, non nel dibattito del XIII secolo, ma in quello del XXI.
Ciò che la “società dell’onore” vive come una statica dell’impedimento, la società della dignità vive come “parità di diritti”. Questo conduce ad una polarizzazione insuperabile. Si prenda ad es. le conseguenze di una lettura della “disabilità” come differenza di onore, che viene perciò privatizzata ed emarginata, o come “città senza barriere e delle pari opportunità”, che arriva a pensarla come “diversa abilità”.
In che modo la tradizione (che vive di quella attestazione autorevole, ma sempre da interpretare, di una rivelazione indisponibile) attribuisca alla donna e alla sessualità un profilo definito e immodificabile è l’oggetto di una grande polarizzazione, nella quale si sovrappongono motivi dottrinali, motivi disciplinari e motivi politici. La riduzione alla “sola dottrina” della questione porta ad una polarizzazione che è tipica dell’ultimo secolo e in qualche caso dell’ultimo 50ennio.
Si osservi come la tradizione ha elaborato il “VI comandamento” “non commettere adulterio” trasformandolo prima in “non fornicare” e poi in “non commettere atti impuri”. La rilettura della differenza di genere della sessualità costituisce una grande trasformazione che la società “aperta” (o della dignità) ha reso possibile. Questo comporta una grande rielaborazione delle categorie con cui pensiame il “sesso” nelle due accezioni che abbiamo ricordato all’inizio:
a) la comprensione della differenza del femminile dal maschile, che esclude la donna dall’esercizio di una autorità pubblica, proietta sulla tradizione rivelata le concezioni della società chiusa, fondata su differenze che garantiscono la “differenza di Dio”; nel momento in cui la società è colta anzitutto sul piano della libertà nella eguaglianza, e non anzitutto nella obbedienza nella differenza, è evidente che la differenza del femminile dal maschile subisce una profonda rilettura. Non si tratta di negarla, ma di riconsiderarla anzitutto sul piano pubblico;
b) il “concetto-chiave” che contesta la omosessualità, ossia la riduzione dell’atto di amore omosessuale ad “autocompiacimento”, mira a costatare la negazione del valore della “alterità” come costitutivo della dimensione sessuale, non solo in termini di generazione. Ma se invece è possibile costatare una apertura alla alterità anche nella relazione omosessuale, Dio vi è implicato e può esservi riconosciuto e persino benedetto. Per farlo occorre aprirsi alla idea che l’individualismo moderno non sia solo immorale, ma più morale della inautenticità del pubblico e del comunitario classico, come ci ha spiegato così bene Ch. Taylor.
Conclusione
Il teologo, di fronte ai fenomeni della nuova identità femminile e della nuova identità sessuale deve evitare di usare categorie troppo rozze, pensando che siano imposte dalla Scrittura e/o dalla Tradizione12. In un certo senso troviamo un compendio di questo approccio “polarizzante” nelle due frasi che ho posto come citazioni iniziali di questo testo13. Spesso esse sono solo “pregiudizi culturali e sociali”, proiettati su un testo “autorevole”, di cui viene proposta una lettura senza vero discernimento. Alcuni esempi del passato (sul giuramento o sulla comunione sotto le due specie) potrebbero giovare per capire a che livello profondo possa e debba lavorare la “de-polarizzazione” come compito teologico e di quanta libertà si siano dotati i teologi del passato nel fornire una proposta e una interpretazione della attestazione di quel depositum, che vincola la Chiesa purché sia adeguatamente compreso. Il lavoro ermeneutico sulle attestazioni del depositum è una cosa del tutto tradizionale, che una accezione tradizionalistica di tradizione considera oggi come una cosa scandalosa. Come se fosse normale utilizzare ermeneutiche vecchie e inadeguate del depositum. Ciò che è veramente scandaloso è confondere la verità teologica con una evidenza sociologica o culturale. Continuità e discontinuità non si possono realmente discernere se si lega a filo doppio la dottrina teologica ad una cultura antropologica e sociologica contingente. Tale cultura non è necessariamente quella del presente, ma può essere, come è evidente, anche quella del passato. Per illuminare la tradizione occorre un riferimento tanto alla esperienza quanto alla Parola, in una chiesa capace di “ascoltare lo Spirito” dalla storia degli uomini e delle donne mediata dalla Scrittura, e dalla Scrittura riletta nella storia degli uomini delle donne (cfr. Gaudium et spes 44 e 46).
1Cfr. Y. Congar, La tradizione e le tradizioni. Saggio teologico, Roma, Paoline, 1965, 405.
2 Questo impegno “pacifista” di P. Consorti emerge, trasversalmente, anche nell’ultimo suo volume, che merita una lettura appassionata come proposta “depolarizzata” di diritto canonico: P. Consorti, Introduzione allo studio del diritto canonico. Lezioni pisane, Torino, Giappichelli, 2023.
3Nella enciclica Mysterium fidei di papa Paolo VI la riflessione sul piano “ontologico” tende a negare l’essere delle specie, per affermare l’essere della sostanza. Ma questo comporterebbe un uso del termine “essere” univoco. I molteplici significati di essere impedisce una soluzione così lineare. Tanto l’accidente quanto la sostanza solo “modi dell’essere”.
4Qui si intendono con il termine “sesso” due cose diverse: da un lato la differenza tra genere maschile e genere femminile, dall’altro l’esercizio della sessualità. La prima accezione ha a che fare con la differenza tra maschi e femmine, e la seconda con la pratica sessuale.
5 Una sintetica e documentata ricostruzione dei passaggi degli ultimi 150 anni si può leggere in A. G. Fidalgo – A. Grillo (edd.), Matrimonio e famiglia. Da ‘Arcanum divinae sapientiae’ ad ‘Amoris Laetitia’, Milano, Paoline, 2022.
6Per una più ampia trattazione di questo sviluppo, in cui “polarizzazione” e “depolarizzazione” si succedono storicamente, rimando a A. Grillo, “La bénédiction du mariage dans l’histoire, entre système théologique et système juridique”, “La Maison-Dieu”, 309(2022), 105-123.
7Si può leggere in Ch. Taylor, Il disagio della modernità, Bari, Laterza, 1994, soprattutto pp. 54-57.
8 Ch. Taylor, Il disagio, 27, n.7.
9 Ch. Taylor, Il disagio, 36
10 Ch. Taylor, Il disagio, 54.
11Ch. Taylor, Il disagio, 57.
12 Un buon contributo a questo raffinamento “depolarizzante” delle categorie si legge con gusto in L. Castiglioni, Figlie e figli di Dio. Uguaglianza battesimale e differenza sessuale, Brescia, Queriniana, 2023.
13 Una antropologia teologica che impone la esclusione delle donne dal ministero e che riduce la omosessualità ad autocompiacimento polarizza definitivamente la questione, pensando di averla risolta.