La luce nei salmi, a partire dalla lettera di Mons. Domenico Pompili


Sabato 24 maggio, a Verona, su invito del Festival Biblico

Le tenebre sono come luce”: la preghiera nel libro dei Salmi

A partire dalla Lettera pastorale “Sulla luce” di Mons. Domenico Pompili

 

«La teoria fotografica si impara in un’ora; le prime nozioni pratiche in un giorno. Quello che non si impara …è il senso della luce….è la valutazione artistica degli effetti prodotti dalle luci diverse e combinate – è la applicazione di questi o quegli effetti a seconda del tipo delle fisionomie che tu artista devi riprodurre» (Nadar, Quando ero fotografo, 2010 – citazione di apertura al volume Silvia Camporesi – Andrea De Santis, Fotografare, Assisi, Cittadella, 2024)

Una domanda sulla “luce”, che viene da un Vescovo come Domenico Pompili, e che si intreccia nel dialogo con un fisico come Carlo Rovelli, arriva ad una serie di “quadri” in cui città e chiesa si intrecciano. Che cosa ci suggerisce il libro dei Salmi, se lo utilizziamo come “faro” per illuminare questo discorso sulla “luce”? La luce “di taglio” che viene dal salterio è singolarmente ricca. Che cosa dicono i salmi non solo della “luce”, ma anche delle tenebre, della notte, dell’aurora o dell’alba? Bisogna ricordare infatti che “luce” è comunque un termine generico, per quanto rilevante e non troppo astratto. Tuttavia i salmi non parlano semplicemente di “luce”, ma ne indicano per lo più il contesto, la fonte, la relazione. E’ la luce “del tuo volto”. Luce è relazione personale, prima che evento fisico. Potremmo allora scoprire che tra la articolazione del testo di Padre Domenico e quello del prof. Rovelli (che scrive una intera parte del testo) si trovano, grazie ai salmi, tanti fili di correlazione.

I salmi, infatti, sono parte di quella che chiamiamo “sapienza” o “libri sapienziali”. In che cosa si distinguono dalla Torah, dai libri storici o dai profeti? Nel mettere a tema la lode di Dio, “dalla polvere della strada alla luce delle stelle” per citare un grande interprete come P. Beauchamp. Vorrei fare il mio percorso usando un criterio piuttosto singolare: farò un esame della “luce” sulla base della azione che i salmi ripetono continuamente: l’azione complessa del pregare. I salmi non sono anzitutto trattati o meditazioni; sono preghiere, discorsi dell’uomo a Dio e di Dio all’uomo, circa il bene dell’uomo e il bene di Dio. Uno scambi di parole, di tutte le parole, persino di insulti, di disperazioni, di gioie e di dolori, tra Dio e uomo, tra uomo e Dio. In questi discorsi il riferimento alla luce è veramente centrale e può esserne una specie di “chiave di lettura”.

1. Domanda di luce e domanda sulla luce

I salmi sono spesso “domande”: domande di un bene. Pescano nella grande esperienza del bisogno di beni che minaccia sembre ogni uomo e ogni donna, fin dalla nascita, in quella prima preghiera comune che è il pianto.

Ma le cose umane non sono mai solo naturali. Da quando abbiamo facilmente una luce “artificiale”, la luce naturale è diventata più scontata. Accendere la luce è diventato un atto immediato, istantaneo, controllato, a disposizione. Ora, con i nostri cellulari, abbiamo sempre anche una “luce”, una “torcia” sempre con noi. Il “black out” ci fa paura. Gli antichi lo vivevano quotidianamente. Ma che cosa è la luce, di cui abbiamo così bisogno? Nella lettera è interessante che il Vescovo e il Fisico si trovino molto vicini nel definire la luce. La “Cosa” e la “Metafora” sono prossime. Definire la luce è difficile. Possiamo offrire metafore, anche come fisici: non solo oggetto, o “quanto”, ma “onda”, l’”agitarsi di qualcosa”…. I salmi sono pieni di metafore, ossia di “breviores similitudines”, con cui per dire una cosa, ne diciamo un’altra. Un teologo francese usa un bel modo per spiegarci la cosa. E lo fa con un esempio straordinario. Quando arrivi ad Atene, lui dice, fuori dall’Aeroporto o della Stazione ferroviaria trovi i “mezzi di trasporto”, che si chiamano “metaforaì”. Le metafore sono “mezzi di trasporto”. La luce è un mezzo di trasporto non solo metaforico. Perché trasporta le immagini: per questo possiamo “fotografare”, carpire le immagini he la luce trasporta. La luce è sul piano fisico ciò che è il linguaggio sul piano metafisico e spirituale: anche S. Tommaso sapeva che la teologia è una “scienza artificiale”, perché inizia da “metafore, simboli e parabole”! La luce è così condizione del vedere e dell’immaginare: sta più dietro che davanti agli occhi. Per questo abbiamo una domanda radicale di luce che ci attraversa: per vedere e per essere visti, per riconoscere ed essere riconosciuti. Nei Salmi (ma anche nei Proverbi) luce è la Parola, luce è la Legge. Ma è anche sguardo di Dio sul popolo e sull’uomo. Questo intreccio di Parola e di sguardo ci dice una cosa importante: verbale e non verbale sono luce in modo diverso, un modo di attraversare la luce dei sensi e la luce della ragione. Anche l’ eterno riposo è detto come luce perpetua e come pace: essere sempre nella luce, contemplando il suo volto. Non parola, ma sguardo e luce. La morte, come la vita, è questione di luce perduta e ritrovata. Di qui una domanda originale che si fa preghiera, fin dal primo respiro.

2. Intercessione di luce

Chiedere la luce per sé, domandare luce, nella vita e nella morte, si distende nel chiedere luce per gli altri. Intercedere vuol dire questo: fa’ che Luca possa vedere, manda la tua luce su Paolo, aiuta Mario a non essere accecato. Ma proprio qui, nel fatto di “chiedere luce per altri”, appare un elemento importante. La luce, in senso metaforico, è parola di bene, di conforto, di riconoscimento, di stima, di apprezzamento, di rilevanza. Portare luce è, metaforicamente, dare vita. Il salmo che abbiamo messo al centro parla fin dall’inizio di uno “sguardo” sull’uomo. Siamo noi, anzitutto, oggetto di intercessione. “Tu mi scruti e mi conosci”. Non per sorvegliare o punire, ma per accompagnare e custodire. Il salmo 138 è una esposizione della esistenza allo sguardo di Dio, allo sguardo che vede la luce anche nelle tenebre.

3. Perdonare il buio e ritrovare la luce

C’è chi resta al buio. C’è chi resta accecato dalla luce. Le nostre vite sono sempre minacciate dalle tenebre. Ritrovare la luce, per chi l’ha persa, e restituire la luce a chi l’ha abbandonata. C’è una parola italiana che ha a che fare con luce e sguardo. E’ invidia. Invidiare è guardare un altro senza luce, con occhi bui, con occhi ostili, pronti solo a vedere il male. Ma c’è anche un eccesso di luce, un abbagliamento, che è principio di cecità. La luce giusta è la sfida. Gettare la luce sulle cose o riconoscere la luce delle cose è un delicato lavoro di aggiustamento dello sguardo e della luce. E’ un riconoscere e un dare luce, allo stesso momento. E’ un mettere a fuoco e un mettere fuori fuoco: è tarare la luce. Non è solo buio/luce la alternativa, ma il discernimento fine di quanto buio ospita la luce e quanta luce ospita il buio. Caravaggio o Monet o Piero della Francesca (per dire solo alcuni estremi) dicono queste alternative formidabili: tra una luce favorita dal buio e una tenebra interna alla luce.

Per questo il salmo dice: “Per te le tenebre sono come luce”. Questo è un paragone, che si apre a una metafora, ma lo fa in un contesto grandioso. Il Sal 139 è infatti uno dei grandi capolavori del Salterio. Signore tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando mi seggo e quando mi alzo. Così comincia. E il testo che abbiamo come titolo sta alla fine di un crescendo straordinario. Ascoltiamolo, in questo tono allo stesso tempo solenne e confidenziale::

Se dico “Almeno l’oscurità mi copra

e intorno a me sia la notte”:

nemmeno le tenebre per te sono oscure

e la notte è chiara come il giorno;

per te le tenebre sono come luce

Qui c’è insieme la luce riferita ad un volto, “la luce del tuo volto”, che è espressione ricorrente nei Salmi, ma anche la luce come figura e metafora prima e ultima dei divino. Una delle espressioni più forti sta proprio nella metafora tra volto e luce: metafora duplice. Ogni volto è luce e la luce è piena solo come volto, come sguardo da riconoscere e che riconosce, sguardo e volto nel quale riconoscersi riconosciuti.

4. Lode: la luce dell’altro

Sempre la preghiera qui fa un salto di qualità: non chiede un bene, ma lo riconosce.

La luce dell’altro mi fa luce. Lodare è riconoscere questo dato fondamentale. I “salmi” sono “lodi” proprio per questo: continuamente ritornano al registro della lode, al riconoscere quella luce che rende possibile ogni visione e ogni essere visto. Qui si nasconde forse il segreto più profondo dei Salmi. Che sono, appunto LODI. Il lodare è confuso con il “fare complimenti”. Lodare è scoprire la luce negli altri, non in sé. E gioire di tutto questo. Non lasciarsi contagiare da quella idea che la luce sia “limitata” e che l’abbondanza altrui provoca la nostra povertà. Altri beni sono limitati. Non la luce. Che è un bene “diffusivum sui”. Gioire per il bene altrui, ossia lodare, ha nella luce il suo modello. Una fonte di luce non è gelosa: illuminando dà luce fuori di sé, oltre se stessa, al di là di sé. La luce non ha logica economica, ma gratuita.

5. Rendimento di grazie: la luce dall’altro

Vi è però un altro rapporto, capovolto, con l’altro e con la luce. Da un lato posso vedere la luce dell’altro, posso riconoscere che è l’altro a darmi e a farmi luce. Gioire di questo è la lode, come abbiamo visto. Posso però avere un rapporto geloso e possessivo con la mia luce. Il mio sguardo e il mio immaginario può facilmente diventare autosufficiente. La luce dell’altro come radice del mio vedere è “rendimento di grazie”. Scoprire la luce dell’altro in me. Di un altro, ma anche di quell’altro che sta in me. Qui la cosa interessante è che l’altro in me è anche un altro me. Una luce che è in me ma non è solo da me. Rendere grazie all’altro è anche un modo per restare capaci di una luce che viene dalla propria storia e dai propri strati complessi, così come descritti da un fulminante testo di M. Merleau-Ponty, che parla del mondo riscoperto dallo sguardo del filosofo:

« In un mondo così trasformato non siamo soli, e non siamo soltanto tra uomini. Questo mondo si offre anche agli animali, ai bambini, ai primitivi, ai pazzi, che lo abitano a modo loro e che coesistono con esso»1

L’animale, il bambino, il primitivo e il pazzo non sono solo fuori di noi, ma in noi, con la loro luce, che bisogna avere occhi per vedere e per riconoscere. Rendere grazie è anche fare questo atto di “messa a fuoco” più acuta sulla propria umanità.

6. Benedizione: riconoscere la luce

Saper vedere la luce piuttosto che il buio, l’aurora piuttosto che le tenebre. Il salmo che Gesù ha sulle labbra, quando è in croce, nel farsi buio del cielo, è il Salmo che comincia con le parole durissime: “Mio Dio, Mio Dio, perché mi hai abbandonato?”. Questa tenebra si apre alla lode e alla benedizione nella seconda parte del salmo. Una luce abbagliante ricopre la terra e la riempie di visibilità dell’invisibile: di speranza. La luce è metafora dello sperare. Dice lo stesso salmo 21: “Edent pauperes et saturabuntur. Et laudabunt dominum qui requirunt eum. Vivent corda eorum in seculum saeculi”. La benedizione apre alla visibilità dell’invisibile. Per questo il salmo 144 può dire: “Oculi omnium in te sperant domine et tu das illis escam in tempore opportuno, aperis tu manun tuam et imples omne animal benedictione”. La luce è condizione di speranza, che è affidarsi a ciò che non si vede. La benedizione è nutrimento di speranza, visione di ciò che non si vede. Le due espressioni salmiche, appena citate in latino, sono la parola sul pasto della cena e del pranzo, in una parte della tradizione benedettina, anche oggi: speranza, visione, luce e pasto si intrecciano e si nutrono a vicenda.

7. Conclusione

Abbiamo visto la luce nella prospettiva della preghiera che è domanda, intercessione, perdono, lode, rendimento di grazie e benedizione. Possiamo chiudere con due testi non dei salmi, ma che hanno rapporto con i Salmi. La tradizione cristiana legge i salmi come “preghiera di Gesù” e come “preghiera su Gesù”.

L’autore della 1 Tm, riprendendo un testo liturgico precedente e già in uso prima della scrittura del testo, parla

della manifestazione del Signore Gesù Cristo

“Che al tempo stabilito sarà a noi rivelata

dal beato e unico Sovrano

il Re dei regnanti e Signore dei Signori

il solo che possiede l’immortalità

che abita una luce inaccessibile

che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere.

A lui onore e potenza per sempre, Amen”

Ma è S. Agostino, che oggi per le frasi di papa Leone (che è padre agostiniano) è spesso citato, ma che viene anche citato a proposito, ma anche sproposito (da psicologi e politici un po troppo improvvisati e arrischiati), a darci una delle letture più impressionanti del rapporto tra i Salmi e Gesù. Troviamo questa lettura potentissima in un testo di commento al salmo 85

«Nessun dono maggiore Dio potrebbe fare agli uomini che costituire loro capo il suo Verbo, per mezzo del quale ha creato tutte le cose, e a lui unirli come membra, così che egli fosse Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, un solo Dio con il Padre, un solo uomo con gli uomini. Così, quando pregando parliamo con Dio, non per questo separiamo il Figlio dal Padre e quando il Corpo del Figlio prega non separa da sé il proprio Capo, ma è lo stesso unico salvatore del suo Corpo, il Signore nostro Gesù Cristo Figlio di Dio, che prega per noi, prega in noi ed è pregato da noi. Prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo dunque in lui le nostre voci e le sue voci in noi» (S. Agostino, Enarr.in ps 85)

La tecnica del pensare e del parlare di Agostino è vertiginosa. Ci offre quattro livelli di considerazione, con un crescendo irresistibile.

Potremmo dire, alla fine della nostra riflessione: ciò che vale per il canale uditivo, per le parole, vale anche per il canale ottico, per gli sguardi. Anche la luce e lo sguardo rispondono alla stessa legge: “riconosciamo dunque in lui la nostra luce e la sua luce in noi”

Così si compie quel versetto del salmo che dice:

Fai risplendere sul tuo servo la luce del tuo volto” (sal 31)

In questa direzione si può leggere la lettera pastorale che fa della “luce”, del “desiderio di luce” l’elemento unificante della cultura e della fede, della chiesa e del mondo. Luce dal basso e luce dall’alto che si fondono e che si rischiarano a vicenda. La luce della fede, che è salvezza per il mondo, e la luce del mondo, che è salute per la fede. Diventare curiosi nel cogliere la luce, è tecnica fotografica e forma di vita, è pastorale ecclesiale e progetto civile, è cammino verso Dio e scoperta dell’umanità dell’uomo.

1 M. Merleau Ponty, Conversazioni, SE, Milano, 2002, 43-44.

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