Elogio dell’inesemplare (/2): la specie e l’odio impersonale (di Marcello La Matina)


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La seconda parte del testo di Marcello la Matina scava nella esperienza della violenza sul debole, sul bambino, sulla donna, sull’anziano, come manifestazione di una dimensione non soltanto sociale, ma metafisica del male: la specie priva il soggetto della dimensione personale e lo rende invisibile. (ag)

B – Tipi e singolarità irripetibili

Gli antichi avevano elaborato regole di rispetto (αἰδώς, ξενία, φιλία per i Greci; pietas, fidesfas, sacer per i Romani) non già per onorare la classe (o la specie) dei vecchi, degli stranieri, quasi volessero affermare il tipo astratto. Al contrario, Greci e Romani riconoscevano in ciascun individuo non specifico (cioè non riducibile alle proprietà genuine di una certa specie) il mistero di ciò che direi una possibile “presenza di persona”.1 Basti per ora un esempio, peraltro molto famoso, tratto dalla letteratura epica latina. Nel poema di Virgilio2 il troiano Enea non abbandona la città distrutta, prima di aver preso su di sé il vecchio padre Anchise e il figlioletto Ascanio; come a significare che non v’è identità nella dimensione presente senza che la linea verticale degli ascendenti e dei discendenti sia visibile. Questa dimensione della diacronia sembra oggi assente nell’Occidente opulento e malato, specie nell’Europa individualista del Nord.3 Oggi si tende a vedere in un vecchio, in uno straniero e perfino in una donna solo i membri di una classe di cui non conosciamo più, né più avvertiamo, la carnalità: siamo ciechi rispetto alla carne vivente che abita in ciascun individuo. Così, abbiamo trasformato gli incontri con le cose singolari in rapporti con gli esemplari (più o meno riusciti, quindi) di una qualche specie o tipo.4 E per tutelarci dalle diversità che non riusciamo più a tollerare, rinchiudiamo gli anziani negli ospizi, gli stranieri nei centri di raccolta, le donne in casa; e i diversi li sistemiamo in luoghi impersonali, spesso mentali e simbolici, che ci tengano al riparo dal confronto con quel che in loro non sappiamo classificare e dominare. Questa dislocazione spaziale è solo una traccia della separatezza ontologica che la violenza del linguaggio intende istituire. Divide et impera, dicevano i latini. Allo stesso modo, potremmo dire, il potere presuppone in qualche modo un sistema di pensiero di tipo platonista,5 poiché quel che lo fa vivere e lo consolida nel suo essere altro non è che un procedimento retorico e dieretico.

 1.3

Perché un vecchio, una donna, un malato, uno straniero (e così tutto quello che non è passibile di una classificazione) diventano oggetto di violenza? Che tipo di violenza è questa? La violenza è sempre il trionfo della specie: è un atto tassonomico, un tentativo di classificare, mettendosi sopra o sotto, anzi che semplicemente accanto. Ecco che un carattere della violenza simbolica e classificatoria consiste nella prevalenza dell’individuo che considera sé l’esemplare di una specie (il sano che prevale sul malato, il maschio sulla femmina, l’adulto sull’anziano). Nella logica della classificazione, la supposta debolezza equivale o alla mancanza di tratti culturali accettati, ovvero al possesso di tratti adiafori, cioè non opponibili ai tratti dell’esemplare che considera sé genuino. Si comprende allora in che senso la violenza sia il trionfo della specie: la violenza è il trionfo non di una data specie su un’altra specie o su individui allomorfi. Nella violenza io vedo piuttosto il trionfo del meccanismo che produce l’esemplarità di qualsivoglia specie, consentendo a certi individui di automarcarsi6 quali esemplari-al-quadrato a spese di altri conspecifici che vengono marcati come esemplari-imperfetti ovvero: inesemplari. Il violento non confligge con il diverso da sé, ma con il conspecifico, che avverte come portatore di una pericolosa omonimia all’interno della sua stessa specie. «Inesemplare» non è pertanto il campione non genuino (unfair) e nemmeno il campione vicario: non è il non-campione (che semplicemente nega o non possiede l’esemplarità) ma il campione-di-non, ossia il campione che addita, senza volerla o poterla soddisfare, la propria esemplarità.

 Se è così, allora possiamo dire che nella violenza è sempre la dimensione personale che viene sacrificata. Nel vecchio non vedo la persona che potrei onorare, nella donna non vedo la persona che potrei amare, ma vedo solo le marche culturali che io non sono capace di assorbire o di differenziare. In tal senso, quando parliamo di “violenza personale”, dovremmo intendere l’espressione non nel senso di “violenza compiuta da una persona o su una persona”, ma nel senso di violenza che sacrifica la dimensione della persona alla prevalenza della specie, dell’individuo che meglio rappresenta l’integrità della specie. La violenza per me è fascista e hitlerista in questo senso: non perché, come ha sostenuto Levinas, essa radicalizzi l’Essere,7 inchiodando l’uomo alla «voce misteriosa del sangue», ma, al contrario, perché la violenza ignora la domanda radicale e non estirpabile che proprio l’Essere rivolge all’uomo, quando lo reclama perché si apra alla verità. Proprio l’uomo, infatti, può assumere il compito di trasformare la propria Geworfenheit nella storicità di una esistenza libera (Heidegger, Introduzione alla metafisica, § IV).8 Una vittoria definitiva della violenza sulla inesemplarità non segnerebbe il trionfo dell’individuo o di una specie, ma la fine della storia, perché la storia è precisamente il gesto di chi ogni volta si mostra irriducibile alla sola forma di vita della specie. In questo senso sono particolarmente profetiche le osservazioni di Alexandre Kojève a commento di Hegel.9

 1.4

Odio e invidia, alfieri della violenza, diventano più potenti laddove impera il conformismo della specie. Il pensiero del discredito e della condanna della società sembrano non essere più sufficienti a fermare la mano dell’aggressore, perché?Negli anni Sessanta gli antropologi usavano parlare di “civiltà della vergogna”, per indicare quelle culture nelle quali ciò che si teme massimamente è il giudizio di riprovazione del proprio simile: non si fa violenza, perché ci si vergognerebbe davanti agli altri. Diversamente, le “civiltà della colpa” sono quelle che hanno interiorizzato la norma e temono la sanzione divina o di una autorità distale, collocata in uno spazio superiore: Non Uccidere, per esempio, è uno dei deka logoi del Dio di Israele. Queste definizioni antropologiche sembrano non adattarsi più al complesso presente di cui parliamo. Chi commette violenza cerca, e spesso trova, l’approvazione sociale; d’altra parte, chi riconosce di aver commesso violenza, sempre più spesso al giorno d’oggi riconosce apertamente di non provare alcuna colpa, né alcun rimorso.

Trovo ancora sensata una bella definizione di Guy Debord, sebbene io preferisca ritoccarla facendo uso di un concetto di Roland Barthes.10 Io direi che siamo membri di una Società dell’ Immagine-a-colori; salvo che, questa immagine è quella della fotografia digitalizzata. Siamo per questo incapaci di leggere la singolarità irripetibile che la vecchia immagine in bianco e nero poteva rivelare a chi passava sufficiente tempo con essa. Siamo divenuti incapaci di lasciarci “pungere” dalle immagini, siamo insensibili al punctum che l’immagine fotografica in bianco e nero – quella studiata amorevolmente da Roland Barthes – possiede ed esemplifica per il semplice fatto di essere unica e irripetibile. La fotografia in bianco e nero, anche riprodotta più volte, non perde questa sua unicità, perché questa è dovuta ad una azione che la luce esercita sulla pellicola in virtù delle proprietà degli alogenuri di argento. La fotografia in bianco e nero in tal modo ottenuta è innanzi tutto un indice, cioè un indicatore della presenza: il mathema della fotografia non è in tal senso l’esserci, il Da-sein, o l’Il-y-a, ma il C’è stato singolare (il Da-gewesen-sein) unico e irripetibile che accade diversamente in ogni φωτισμός, e di cui la luce si fa garante con l’inamovibilità del suo essere – che si differenzia dall’ente come il la luce dal colore.

Che, pertanto, l’ente che noi sempre siamo (l’Esserci dell’uomo in questo caso) sia diventato ottuso di fronte alla rivelazione ontologica operata dalla fotografia altro non sta a significare che una incapacità di cogliere il mondo come traccia di una possibile fotografia, cioè trascrizione di una “scrittura della luce”. Una traccia, si badi, che non è il denotatum della fotografia, ma che è piuttosto – come oggi potrebbe dire Lacan – il Significante che sempre “significa un soggetto per un altro significante”.11 Dovremmo chiederci quanto costi questa cecità all’uomo, cioè a quell’ente per il quale – in quanto già sempre esposto alla scrittura della luce – «nel suo essere, ne va di questo essere stesso» (Heidegger, Essere e tempo, § 4)

1.5

La violenza che appare da questa lettura non è per niente un fenomeno sociale, ma un evento (forse, come scrisse René Girard, l’Arci-evento fondatore) della metafisica. È legittimo chiedersi quanto la cultura possa fare per contrastare la riproduzione e la diffusione della violenza: per dirla con Kant: si può concepire una rivoluzione o una inversione nello sviluppo della Ragione? Ho ricordato in precedenza l’eroe troiano Enea, che il poeta Virgilio scelse come padre della civiltà cui apparteneva. Enea ci ricorda che non vi è una fondazione che possa lasciare inoperoso il passato dalle cui membra usciamo. Qualsiasi rivoluzione culturale equivale alla fondazione di una città, alla ricerca di una città che sia il luogo per il futuro della comunità, e contemporaneamente il luogo dove il passato che conta possa rivivere (antiquam exquirite matrem, “cercate l’antica madre”: così il padre Anchise ammoniva il figlio e i Troiani tutti).12 Vorrei trarre spunto da un episodio dell’Eneide, per dare forma al mio pensiero. Nel terzo libro del poema si racconta dell’approdo di Enea in una terra straniera alla ricerca di legna e fogliame adatti alla celebrazione di un sacrificio. Enea si avvicina a un cespuglio di rovi e strappa un rametto. E subito (horrendum et dictu video mirabile monstrum – abbrividisce Enea) vede sgorgare del sangue da quegli sterpi: i quali subito si fanno voce: la voce di Polidoro, figlio di Priamo, che racconta come sia stato ucciso a tradimento e poi trasformato in questa pianta senza nome. Virgilio ci mostra Enea mentre ritrova nella sterpaglia una presenza di persona. Egli è l’eroe che trasforma una confusa pluralità dell’ambiente naturale in un vincolo personale e identitario, che storicizza la natura e le conferisce un senso comunitario. Enea possiede e manifesta quella Stimmung che a mio avviso servirebbe per neutralizzare il mito della Ragione, della specie. La violenza specista, infatti, presuppone sempre una autoctonia che manca ad Enea. Egli è per antonomasia l’eroe profugo, destinato al βίοςξενικός, all’erranza che deve fare a meno dell’ontologia consueta. Ricostruire a mezzo della memoria e della storia la “persona ambientale”, facendo uscire le cose della mera materialità della specie e del genere, per conferir loro lo statuto simbolico che possa consegnarle alla memoria e al rispetto. Se, come s’è detto, la violenza è sempre la vittoria della specie e dell’individuo-esemplare a scapito della persona, allora fare una persona del moderno “sciame digitale”, leggere la personalità latente nelle cose, può rivelarsi una strada promettente.

1 Questa tesi sembra avvalorata dalla diffusione della xenìa, la quale è sempre in Grecia una relazione interpersonale, e mai un vuoto ossequio alla “classe” o al “genere”. Cfr. Andrea Cozzo, Stranieri. Figure dell’altro nella Grecia antica, Di Girolamo, Trapani 2014.

2 Certo ricorda il lettore le concitate fasi dell’incendio di Troia la toccante preghiera di Anchise, che solo dinanzi a un prodigio divino si persuade a partire con il figlio e gli altri suoi: «Hic vero victus genitor se tollere ad auras / Adfaturque deos et sanctum sidus adorat: / Iam nulla mora est: sequor, et qua ducitis, adsum. / Di patrii, servate domum, servate nepotem». Verg. Aeneis, II, 699-702.

(continua 2/4)

3 Il riferimento più pertinente, e a suo modo, sconcertante, è un film documentario girato in Svezia da un regista italiano: Erik Gandini, La teoria svedese dell’amore [The Swedish Theory of Love], Fasad AB, Stockholm, 2015 (tra i personaggi merita ricordare il filosofo Zygmunt Bauman, che interpreta sé stesso).

4 Il discorso sottende una questione logica e semantica, legata alla dialettica tra individuo e classe. Per una critica dei sistemi filosofici platonisti, si veda Nelson Goodman, The Structure of Appearance, Springer (= Boston Studies in the Philosophy of Science), Dordrecht 1977.

5 Su platonismo e potere, è ancora utile leggere Karl R. Popper, The Open Society and its Enemies. Vol. 1 – The Spell of Plato, Routledge, London 1945.

6 Del problema dell’automarcatura degli individui in un contesto socio-semiotico mi ero occupato nel volume, Cronosensitività. Una teoria per lo studio filosofico dei linguaggi, Carocci, Roma 2004.

7 Si veda in proposito il denso scritto di Emmanuel Levinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, con una Introduzione di Giorgio Agamben e un saggio di Miguel Abensour; traduzioni di Andrea Cavalletti e Stefano Chiodi. Quodlibet, Macerata 1996.

8 Sulle filosofie dell’essere e la violenza, vedi la discussa interpretazione di Donatella Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I “Quaderni neri”, Torino, Bollati Boringhieri, 2014.

9 Ci riferiamo a Alexandre Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel. Lezioni sulla «Fenomenologia dello Spirito» tenute dal 1933 al 1939 all’École Pratique des Hautes Études raccolte e pubblicate da Raymond Queneau, Adelphi, Milano 1996.

10 Cfr. Roland Barthes, La chambre claire. Note sur la photographie, Gallimard, Paris 1980.

11 Cfr., per questa definizione, Jacques Lacan, Séminaire XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, Seuil, Paris 1973.

12 Verg. Aeneis, vv.

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