Per Padre Lorefice (di Antonio Sichera)
Alcuni giorni fa avevo pubblicato un post “in memoriam” di un bravo prete, parroco, professore e caro amico di Modica, P. Carmelo Lorefice (1931-2019). Giovedì scorso, durante i funerali nella Chiesa di S. Pietro, a Modica, Antonio Sichera, collaboratore e grande amico di P. Carmelo, ha tenuto questo discorso bello, forte, pieno di tatto. Lo ringrazio di cuore per avermi permesso di pubblicarlo qui, con la sola aggiunta di alcuni titoli in neretto. Merita di essere letto non solo come una splendida memoria di quello che è stato P. Carmelo per 60 anni, nella sua città, ma anche come possibile biografia di un prete di oggi e di domani, come testimonianza di una fede possibile, viva, vivace e vitale. E’ una morte, quella di P. Lorefice, che dà vita e dà speranza. Che fa tradizione.
Per Padre Lorefice
di Antonio Sichera
Invitato dal parroco e dagli amici della comunità parrocchiale a dire qualche parola a nome di tutti, appena mi son seduto davanti al foglio bianco ho provato un grande senso di disagio. Ho capito quanto fosse difficile per me parlare di Padre Lorefice – non solo e non tanto per il coinvolgimento emotivo –, ma perché mi chiedevo come fare a parlare nella maniera giusta, intendo giusta per lui, che era un nemico giurato della retorica. Lui che negli anni aveva accentuato il fastidio per la parola in più, per il gesto appariscente, per l’esposizione narcisistica di sé. Queste cose Padre Lorefice non le sopportava, le avvertiva a pelle. [Era un amante della conversazione, della chiacchiera anche, ma] aveva come un radar per il superfluo e l’eccessivo, di fronte a cui si chiudeva; sentiva subito il rumore vuoto delle parole, il dire tanto per dire, la mancanza di aderenza, il peso della volgarità. È d’altronde questo un tratto comune in tanti dei ricordi di lui che da martedì abbiamo letto o ascoltato, e ai quali ha dato voce il nostro Padre Antonello, l’ultimo, insieme a Frate Emanuele e a Don Rosario, dei suoi eredi a San Pietro, quando ha scritto che «Padre Lorefice era un uomo e un prete essenziale, […] che lasciava per sé e per gli altri solo le cose che contano molto».
Raccontare l’uomo
Ma siamo già vicini all’encomio, e lui mi avrebbe zittito. Ho pensato allora che l’antidoto poteva essere il racconto: provare in poche battute a raccontare quest’uomo che tanta parte ha avuto nella nostra vita, nella vita di tanti. Provare a capire in che cosa consistesse questa essenzialità da cui siamo partiti. Forse aveva a che fare con le sue origini semplici, con la tradizione contadina e tipicamente modicana della sua famiglia, di cui era sempre memore e per certi versi orgoglioso. Come a dire che la filosofia non gli aveva mai fatto perdere di vista le radici umane della vita. O forse veniva dalla sua storia: la FUCI, il Seminario minore della Diocesi di Noto, ubicato a Modica nell’attuale sede della Casa don Puglisi, dove aveva iniziato quel rapporto con i giovani, con i ragazzini anche, che lo avrebbe poi accompagnato per sempre (e quanta autoironia faceva sulle letture spirituali che proponeva ai suoi piccoli allievi, in quegli anni ancora distanti dal Concilio!).
O forse erano stati decisivi i suoi cinquant’anni a San Pietro: vi era arrivato nel 1958 insieme a Mons. Gambuzza e con lui aveva costruito nel tempo un sodalizio singolare, basato sull’assoluto rispetto dell’assoluta differenza. Due personalità diversissime: Monsignore, formato ad un modello di prete della tradizione ottocentesca; lui, Padre Lorefice, interprete fine e inquieto di una contemporaneità che entrava già nelle sue omelie degli anni sessanta e settanta alla chiesa del Soccorso, [omelie] capaci di affascinare la prima generazione dei suoi giovani seguaci (molti rimasti vicino a lui, sposati da lui o anche tornati alla fine della vita, come Nenè Criscione, a cui nel settembre del 2004, da parroco, concesse di cuore, nel turbamento generale, la bandiera rossa a copertura della bara durante il funerale, non per un motivo politico, ma per rispettare anche in morte la libertà di essere e di manifestarsi di una persona che gli era stata figlio e amico). [Due uomini diversissimi, dicevo] Eppure sono rimasti l’uno accanto all’altro, per quarantatré anni: Monsignore con l’aria paterna di chi era stato vicerettore di ‘Lorefice’ in seminario, apprezzandone le qualità altissime (mi diceva: «Lorefice è la migliore intelligenza filosofica della Diocesi, Ruggieri la migliore intelligenza teologica») e sempre pronto a scusarne le distrazioni da filosofo (gli chiedeva ogni tanto ridendo: ‘ma che Messa hai celebrato oggi pomeriggio?’ quando il suo viceparroco, scendendo trafelato dal suo studio, inforcava i paramenti e correva all’altare magari sbagliando giorno, prefazio, o scambiando anche un anniversario di nozze per un anniversario di morte…). Padre Lorefice, per parte sua, era riflessivo osservatore della solidità di Monsignore, di cui al contempo notava un’ingenuità e un’immediatezza di entusiasmo che riteneva eccessivi (o forse lo criticava, lui apparentemente così prudente ed esitante, perché nel fondo gli assomigliava…). Insieme, con l’apporto di don Fallisi, hanno ‘inventato’ la Settimana Teologica. Insieme, li ha tenuti il silenzio: non quello simbiotico che copre le differenze, né quello equivoco, che lascia le ferite, ma un silenzio speciale, di attesa e di fiducia, in grado di agire anche nei pochi momenti di conflitto. Un silenzio incarnato – lungo i decenni di vita comune – dalla signorina Rosa [per tutti la signorina], la mitica sorella di Padre Lorefice, al quale Rosa ha dedicato tutta la vita. Lei era il vero segreto di quella convivenza: riservata (e incontrastata) governatrice della canonica, minuta lady di ferro, sagace e intelligentissima, sensibile e affettuosa, capace come solo le donne sanno fare, di creare casa, di fare dimora, di costruire lo spazio fisico di ogni mediazione possibile. A lei oggi va tutto il nostro affetto e il nostro abbraccio.
Il modo di esser prete e parroco, per due generazioni
Certo, l’essenzialità di Padre Lorefice ha a che fare pure con il suo modo di essere parroco dopo la morte di Monsignore: senza alcuna vanagloria, ritenendosi sempre un traghettatore, uno di passaggio. Avendo a fianco, come un sostegno che giudicava prezioso e necessario per lui, prima don Franco Cataldi (venuto negli ultimi anni di Monsignore a ricostituire una triade che non si vedeva qui dai tempi di don Genovese) e poi don Gianni Donzello. Scorte affettuose dei primi e degli ultimi di quegli otto anni che Padre Lorefice troncò all’improvviso, con una libertà che ancor oggi lascia a bocca aperta. Era ancora in ottima salute, perfettamente in forma, ma intuì che l’eredità costruita da lui e da Monsignore doveva essere affidata a qualcuno che potesse custodirla e coltivarla. L’opportunità che venisse a far da parroco l’attuale arcivescovo di Palermo lui non voleva farsela sfuggire. Insistette in segreto, ottenne il risultato, e annunciò una domenica di febbraio che la domenica successiva non sarebbe più stato lui il parroco di San Pietro, nello sbigottimento generale. Ma ancora una volta ci aveva visto lungo. La storia gli ha dato ragione.
Nel mezzo, in mezzo cioè a questi cinquant’anni a San Pietro ci sono state tante altre cose: il Sinodo, il rapporto con Mons. Nicolosi, la presidenza della Scuola Diocesana di Formazione, la fondazione del Cenacolo Bonhoeffer. Ma per provare a inseguire ancora il filo della sua ricerca di essenzialità, vorrei almeno dire qualcosa del suo modo di essere prete, professore, padre, amico, fermando nel vagare della mia mente quattro ricordi emblematici.
Quattro ricordi: il prete, il professore, il padre nello spirito, l’amico
[Il primo: Padre Lorefice prete] È la primavera del 2002. Per la prima volta, in quell’estate, Padre Lorefice sarebbe andato a trascorrere i suoi soliti mesi a Marina di Modica da parroco di San Pietro. La parrocchia di Maria Assunta a Marina era nata con lui, era l’altra sua creatura. Gli consentiva una vita pastorale a sua misura, in una chiesa dove spesso di tasca propria e con finissimo gusto aveva creato un ambiente liturgico privo di sbavature devozionali, e dove senza timore di critiche, con grande libertà, resistendo alle nostre obiezioni, molto vicine a quelle dei discepoli per il profumo sprecato a Betania, aveva deciso di installare dei climatizzatori per lenire uno spazio ormai invivibile. Ci disse: «Vorrei fare qualcosa a Marina, per la gente che vuole venire, per i giovani. Dovete aiutarmi». Nacque così una serie di incontri estivi, il mercoledì sera, a Marina. Si badi bene: aiutarlo significava disporre le sedie, essere presenti, andare a prelevare le bevande immancabili nel frigo della casa. Poi nient’altro. In seguito all’annuncio, tanti giovani – siciliani e non siciliani, credenti e non credenti – arrivavano alle 22 nel giardino della casa, sedendosi in cerchio. Ma l’incontro non aveva scaletta, argomento. Non c’era nessuna introduzione del parroco. Padre Lorefice era lì, seduto accanto a tutti, ad aspettare tranquillo che qualcuno cominciasse a parlare. E la conversazione – rigorosamente della durata di un’ora – diventava come per incanto profonda e appassionante. Lui chiudeva l’incontro con poche parole, raccogliendo le parole di tutti, e offriva da bere. Capii allora, meglio di ogni altra volta, che cosa fosse per Padre Lorefice la [cosiddetta] pastorale: uno stare accanto, la compagnia di un corpo paterno, che guida e comunica speranza con il suo stesso esserci, che non ha bisogno del sacro per esprimere il vissuto della fede, che lascia spazio agli uomini, ai giovani anzitutto, con fiducia e rispetto, senza nessuna barriera tra presunti credenti e non credenti, tra cristiani e non cristiani. Era la sintesi della nostra esperienza, della nostra vita accanto a lui.
Prete dunque, ma anche professore. Credeva nello studio e invitava per primi i suoi nipoti, così amati, a studiare [sono qui, possono confermarlo]. Non per fare carriera, ma perché per lui studiare significava poter capire e vivere meglio il mondo. Una sera di tanti anni fa, ero all’ultimo anno di liceo, gli chiesi qualche libro per approfondire la filosofia di Hegel. Mi invitò subito a salire da lui in canonica e mi diede due (allora) recenti, ponderose monografie inglesi su Hegel. Mi disse: «Guardali tu questi testi! Leggili con attenzione. Io non li ho ancora letti bene». Aprendo i libri poco dopo, mi accorsi che erano sottolineati e fittamente postillati, ma lui ‘non li aveva ancora letti bene’. E non lo diceva per finta umiltà, per sprezzatura, ne era convinto davvero. Perché lo studio serio era per lui un orizzonte sempre aperto, una meta da raggiungere, una via mai finita. E a scuola non cercava consenso o simpatie. Non voleva ottenere un plauso a buon mercato. Il rapporto di Padre Lorefice con i suoi giovani allievi [io che gli son stato collega lo posso dire] era privo di ogni forma di manipolazione: quel che gli premeva era coinvolgerli in un’avventura per lui fondamentale. E tanti lo hanno capito.
I tanti che lo hanno scelto come padre nello spirito. Quanti, potei scoprirlo solo un giorno di quindici anni fa. Era il sabato santo e avevo pensato di andare a confessarmi da Padre Lorefice. E così per la prima volta vidi, dopo molti anni, che il sabato santo per parlare con lui c’era la fila. Che la gente più svariata lo aveva eletto a padre e a guida, e in quel giorno così evocativo veniva da lui. E si metteva in fila per parlargli. Mi confessai tardi, quella sera. Ma non fu il vero frutto della giornata. Quello vero fu aver capito quanto sia potente nella nostra vita l’ascolto rispettoso e partecipe del racconto dell’altro. E tutta quella gente era in fila per farsi ascoltare da lui – e io con loro – perché Padre Lorefice altro non faceva che comunicarti la sua vicinanza, la sua passione, e darti alla fine una saggia parola di speranza. Perché per lui c’era sempre una possibilità ulteriore nella vita.
Sì. Contrariamente a quanto sembrava, Padre Lorefice era un ottimista, nel senso autentico di uno che credeva nel cambiamento possibile. E per questo era tutt’altro che serioso, capace di godersi la festa e l’amicizia. A farcelo notare sono state come sempre le persone più improbabili, gli outsider. Eravamo a Roma, una sera, per uno dei convegni organizzati da don Pino Ruggieri. Fuggiti dal convegno con alcuni amici, andammo a mangiare in trattoria, da Gino al Parlamento. Il cameriere romanaccio ci squadrò all’entrata, ci fece accomodare e notò la nostra consueta allegria. Venuto a prendere le ordinazioni, alla scelta di ogni piatto aggiungeva un commento su ognuno di noi, suoi clienti. Arrivato il turno di Padre Lorefice, prima che potesse parlare gli disse: «»Eh, ho capito, lei è il più scavezzacollo!». Sentir dare dello scavezzacollo a Padre Lorefice fu motivo di enorme ilarità per tutta la serata. Ma in verità l’amico cameriere ci aveva preso: aveva sentito il gusto e la gioia della vita, della tavola e dell’amicizia che sprizzava dal volto e dal sorriso del più anziano e scavezzacollo dei suoi clienti.
Basta l’essenziale
Poche cose bastano nella vita. È questo l’essenziale. Padre Lorefice lo ha cercato e forse lo ha definitivamente trovato proprio in questi ultimi anni di ministero, quando ha lasciato da parte i libri di filosofia, si è dedicato anima e corpo ai commentari della Bibbia e ha cominciato a trascorrere le sue settimane con l’unico obiettivo di preparare l’omelia da tenere a sant’Agostino, la sua ultima chiesa. Lì, grazie ad un’intuizione di Padre Antonello, venti o trenta persone al massimo (anziani, ammalati, fedeli disparati, cercatori di Dio) si sono date convegno in questi anni per partecipare alla sua eucaristia e per ascoltare la sua predica. Padre Lorefice viveva per preparare quell’omelia: «Faccio questo. E mi basta». Secondo Kierkegaard «diventare sé stessi è un movimento sul posto». È scavando le proprie radici, lavorando il terreno dell’anima, vivendo la sapienza del corpo, accogliendo quanto ci viene consegnato dalla vita e dagli altri che si diventa quel che si è. Sant’Agostino è stato idealmente questo posto, dove un uomo naturalmente umile e puro di cuore ha continuato fino alla fine a parlare di Dio con parole semplici e umanissime. Dove un contadino dello spirito – ecco il senso delle sue origini così vantate, che mi è stato aperto proprio oggi da Luca – ha completato il corso di una vita dedicata a spargere semi, non di fiori effimeri ma di querce, ad aspettare con pazienza, a rispettare i ritmi dell’altro, ad avere fiducia in quel che non si vede, ad avere fede, appunto.
Gli ecclesiologi dicono che la fede – fenomenologicamente – altro non è che la trasmissione di una notizia. [euanghelion] È vero. Ma è altrettanto vero che la fede di chi crede dipende anche da colui che trasmette la notizia. E che credere nella notizia è anche credere in colui che te la dona. Non so onestamente se senza la libertà e l’umanità di Padre Lorefice avrei potuto concepire la mia fede. So che in uno spazio arido, costretto, pieno di precetti, permeato da rubriche e da sistemi etici o culturali, questa fede sarebbe probabilmente finita presto. Mi rendo conto che forse in tutti questi anni ho creduto sulla sua fede e nella fede che lui mi ha e ci ha consegnato. Perché è stato lui per noi, per tanti, il volto vivente e nascosto del Vangelo. E per questo stasera gli rendiamo omaggio, con affetto grande, con una speranza viva, per lui e per tutti. Grazie nostro carissimo Padre Lorefice!