Riforma della Chiesa e riforma liturgica: una questione teologica inevasa


pandemia

Dobbiamo ammetterlo: viviamo un tempo singolarmente difficile. Per questo alcuni, anche per buoni motivi, ritengono che non si debbano sollevare questioni di fondo e sia preferibile tacere, curare le ferite, consolare gli afflitti, coltivare la speranza nel silenzio e nella preghiera. Io rispetto questo avviso, e lo considero una scelta seria e di grande dignità, ma non sono del tutto convinto che questa scelta risulti opportuna e utile su tutti i fronti. La vicenda tragica, che nelle ultime settimane ha colpito l’immaginario collettivo e che ha ottenuto la reazione di una parte dei teologi e del popolo di Dio, è legata alla “pandemia”, alla “quarantena” che determina e alla sua “gestione liturgica”. Il divieto di assembramento e di raduno, iniziato in Italia ai primi di marzo, ha messo al centro della attenzione la liturgia. Una liturgia divenuta improvvisamente “impossibile” ha suscitato un grande dibattito sulla sua “possibilità”, sulla sua “necessità” e anche sulla sua “essenza”. Ma questa domanda nuova, legata alla contingenza epidemica, ha mostrato, in modo insolitamente forte, la connessione tra liturgia e Chiesa, come forse non avevamo mai compreso così bene. Tuttavia, la Chiesa, messa sotto pressione, ha anche evidenziato singolari debolezze, oltre a grandi aperture e a risorse forse prima impensabili. Non da ultimo la situazione ha fatto emergere anche resistenze in campo teologico, legate ad un modo formalistico e algido di interpretare il ruolo della teologia, che non riesce a rispondere alle esigenze di questo tempo. Vorrei provare ad analizzare questi sviluppi recenti in 3 passaggi: esamino la domanda di liturgia (1), scopro le correlazioni con la identità ecclesiale, illustrandone debolezze e le risorse (2), e chiarisco il ruolo che una teologia attrezzata e dinamica potrebbe avere in tutta questa vicenda.

1. La liturgia impossibile e la natura della liturgia

Se le Chiese vengono chiuse, non si può celebrare. Come fare? Tanto più che il periodo è impegnativo: arriva Pasqua e la tradizione non solo celebra la festa, ma a Pasqua ha anche concentrato anche i precetti di confessione e di comunione da almeno 800 anni! La risposta a questo enigma ha percorso alcune strade parallele, che possiamo riassumere in forma breve, quasi a mo’ di slogan:

risposta tecnologicaciò che non fa lo spazio fisico, può fare la “rete”: quindi tutto (o meglio, quasi tutto) si sposta in “streeming”. La connessione, o la trasmissione, cominciano ad essere utilizzate come canali della liturgia o sostitutivi di essa.

risposta canonistico-istituzionaleil diritto e la teologia possono giustificare quasi tutto: è sufficiente intervenire normativamente, o recuperare eccezioni dalla lunga tradizione, e tutto torna a posto. Ad es. se la norma dice che una messa non può essere celebrata senza popolo, è sufficiente dire con una norma che invece è possibile. E il gioco è fatto.

risposta gerarchico-spiritualequello che conta lo può fare il prete/vescovo (quasi) da solo. D’altra parte l’idea che la messa sia “cosa del prete” si rafforza in regime di clausura, e questa condizione aiuta a recuperare il tema della “sostituzione”: non supplet ecclesia, bensì supplet ecclesiam sacerdos. 

risposta dalla base della piramide rovesciata:  famiglie e singoli possono celebrare la Pasqua. Si riscopre che i battezzati possono celebrare, lì dove sono. Di qui nasce un grande creatività e iniziativa, poco o nulla organizzata. Perché, in regime di contenimento, alcuni preti per lo più si contengono e pensano alla “loro” Pasqua. Al massimo possono “trasmettere” la loro agli altri assenti.

Si sono messi in moto questi 4 registri, contemporaneamente, utilizzando linguaggi, immaginari, riferimenti, attenzioni e orizzonti diversissimi. Qui, a mio avviso, alcune cose sono apparse chiare. E riguardano come viene pensata/vissuta/annunciata la Chiesa nel momento in cui, per necessità, si è costretti a “metter mano” alla liturgia. Siccome la liturgia, in questo frangente, non poteva “andare da sè”, ha costretto tutti a posizionarsi, a esporsi, a dire, a mostrare. E questo ha rivelato molte cose. Provo a dirne solo alcune.

2. La Chiesa che celebra e la sua identità

Che cosa celebrare? Quale identità manifestare? Qui, su ognuno dei 4 versanti che ho considerato, emergono identità nascoste, si confermano virtù e vizi, più o meno amplificati. Ovviamente, le cose si sono presentate mescolate e con straordinaria complessità. Modelli e stili di Chiesa si sono esposti: è stata quasi una “ostensione”, indiretta e perciò tanto più interessante, del sacramento della Chiesa. Vediamone alcune:

a. Le “dirette” spensierate. 

Pensare che la liturgia possa essere “rappresentata” semplicemente così, mettendo una telecamera che riprende “dalla parte del popolo” la scena, tradisce una certa ingenuità. L’effetto di spettacolarizzazione è inevitabile e rischiosissimo. Il modello di chiesa, implicito, è quello dei “muti spettatori”. Questo non significa che, mettendosi di impegno, non si possa cambiare registro. La tecnologia non è solo “ripresa televisiva”. E’ l’uso del mezzo a mostrare una Chiesa troppo piatta e unidirezionale. Ma non sono mancati usi più virtuosi.

b. La rinuncia alla liturgia e la difficile tematizzazione del “popolo necessario” 

Qualcuno, non molti, ha preferito rinunciare. Se la assemblea non si raduna, io parroco non posso celebrare. Non mi sogno di celebrare davanti ad una telecamera e nemmeno da solo. Prego, ascolto, consolo, ma non celebro. Debbo però cambiare codici, spostarmi su altri piani. E questa è già fatica. Ma fatico anche di più ad argomentare, perché l’idea che la assemblea sia necessaria non ha forza. Anzi, anche alcuni Vescovi sembrano esserne sostanzialmente estranei.

c. La rassicurazione minimalista e “classica”

Una via molto praticata e trasversale è quella offerta da schemi classici di riflessione, che si presentano come “argomenti risolutivi”: la liturgia vera è quella della vita; Dio è libero di dare la grazia senza sacramenti; la parola è più importante del sacramento;  il sacramento decisivo è quello del prossimo. Insieme a questi, sul fronte opposto, un’altra serie di “evidenze” per tempi eccezionali: il votum sacramenti ottiene l’effetto del sacramento; la comunione spirituale soppianta quella sacramentale; la sospensione del precetto domenicale libera dai sensi di colpa. Riducendo alla essenza il sacramento e sfrondandolo di ogni uso, ecco risolto ogni imbarazzo. Sublato corpore, la epidemia non spaventa più. E poi, se nel frattempo gli uffici romani riescono, nel pieno della pandemia, a fare la riforma del rito del 1962 e riattivare la macchina della rianimazione anche per le indulgenze, trionfa il “cattolicesimo garantito”. Il fine è di rassicurare, ma forse si aggiunge solo sgomento a spavento.

d. Il chierico senza ruolo e le comunità presbiterali

Infine, molti preti lo confessano apertamente: non ho mai pregato tanto come in questa Quaresima-Pasqua. Oppure: la veglia con i confratelli in parrocchia – noi da soli – è stata bellissima. La identità presbiterale ed episcopale pensa la Chiesa con schemi molto partecipati, ma soprattutto partecipati interiormente. Inconsapevolmente, tende ad identificarsi con la Chiesa a tal punto da pensare, in assoluta buona fede: “L’église c’est moi”.

3. I teologi, la liturgia e la riforma della Chiesa

In questo tempo e di fronte a queste sfide, la teologia non può né stare a guardare, né preoccuparsi soltanto di non turbare. Deve offrire criteri di intelligenza della realtà e mostrare che cosa ci sta accadendo. I teologi, nella Chiesa, ci sono solo per questo: il loro ministero, che è “magistero della cattedra magistrale”, è di esercitare una parola più libera, perché non immediatamente operativa, al servizio della parola più autorevole, perché immediatamente operativa, del “magistero della cattedra pastorale”. Detto in forma di battuta: “i teologi sono pagati per non fare i pesci in barile”. Il loro mestiere è di non nascondersi, di non sgusciare via, di dire la verità, anche quando è scomoda. Ora il tema liturgico appartiene al DNA della riforma della Chiesa. E lo è in una forma molto particolare. Perché il Concilio Vaticano II, quando ha cominciato a incidere, ha cominciato di lì. Dalla riforma liturgica. E chi ha paura della riforma della Chiesa, se deve difendersene, sa che il primo punto da bloccare è proprio la liturgia. Pertanto è importante notare come, per il teologo che abbia a cuore la riforma della Chiesa, comprendere il fenomeno liturgia è assolutamente decisivo. Il linguaggio elementare del rito chiede ai teologi un supplemento d’anima, uno scatto di reni, un colpo d’ala. Lo chiede proprio ora:

a) Infatti, proprio in ambito liturgico, da 13 anni, abbiamo una “questione sistematica” che molti teologi non affrontano con tutta la chiarezza e la urgenza necessaria. Preferiscono non parlarne, o accennarvi da lontano, magari anche lamentarsi, ma non esercitano su di essa il loro mestiere, che consiste nell’ “offrire chiarimenti e salvare i fenomeni” (Juengel).

b) Il chiarimento necessario è questo: se in una Chiesa, che ha celebrato un Concilio, e che come primo atto di questo Concilio, ha realizzato una “riforma complessiva” della azione rituale, all’improvviso si pretende di riconoscere come parimenti vigenti i riti che quel Concilio ha voluto riformare e superare, in questo modo si compromette in radice la riforma della liturgia et quidem la riforma della Chiesa. Il fenomeno da salvare è il cammino coerente della Chiesa nel mondo contemporaneo. Di fronte ad una tale questione una teologia che ragioni solo “ex auctoritate”, che dica “c’è una legge che lo prescrive”, non è una teologia degna di questo nome.

c) Ciò è divenuto particolarmente chiaro in queste settimane di “contenimento”. La confusione dei registri, per certi versi inevitabile, mostra che la tentazione di una liturgia “autoimmune” è ancora fortissima. E lo è su entrambi i versanti. Perché tende a “chiudere” le parti nelle proprie autoevidenze: con i preti che si dicono messa da soli e i non preti che da soli fanno spesso solo ciò che avrebbero fatto 60 anni fa. Se, in questa condizione, i vescovi non riescono a dire una parola veramente chiara sulla liturgia come atto ecclesiale, la teologia deve dirlo con preoccupazione e svolgere la funzione profetica di mettere in guardia tutti, vescovi compresi, da un errore colossale.

d) In tutto questo ognuno porta solo le proprie responsabilità. Se un pastore non sa parlare adeguatamente dell’eucaristia proprio quando non può celebrarla con il suo popolo, questo è un problema. Come lo è un popolo che se non ha la chiesa accessibile, si attacca al telecomando. Ma ci sono anche le responsabilità dei teologi: di quelli che parlano, per come parlano; e di quelli che non parlano, che preferiscono non avere problemi, che girano la testa dall’altra parte e lasciano cadere le questioni.

e) Soprattutto in campo liturgico, certamente dal 2007, ma direi già dalla fine degli anni 90, dire la verità sembra diventato un problema. Anche nel recente dibattito su Summorum Pontificum si nota una sorprendente tendenza, interessante sul piano strettamente ecclesiale. A notare e ad esprimere come problema la ipotesi di una “doppia forma del rito romano” – che è scandalo liturgico, ecclesiologico e dogmatico – sono stati finora soltanto “non chierici”. I chierici, per il momento, o sono intervenuti per negare che questo sia un problema, o non sono intervenuti affatto. Si potrebbe dire che i chierici o non si accorgono del problema, o se ne accorgono, ma ritengono di non poterlo dire, per obbedienza, per opportunità, per discrezione o per forse timore. Ma questo è uno strano modo di fare i teologi.

f) Ciò ha sicuramente a che fare con la forma di vita. La forma di vita clericale, di per sé, dovrebbe essere fatta per garantire maggiore libertà. Il prete non può scusarsi dicendo: “non posso parlare, tengo famiglia”. Almeno finché il celibato sarà la norma ecclesiale, questa giustificazione non regge. Ciò non toglie che questa loro maggiore libertà in astratto, risulti bloccata,congelata, paralizzata, soprattutto sul piano liturgico. Ma una cosa molto simile vale anche sul piano del dibattito sui ministeri o sul ruolo della donna nella Chiesa: per lo più si sceglie di tacere, di non pronunciarsi, di sorvolare.

Ma se i chierici non vedono nella “doppia forma rituale” un problema per la vita della Chiesa, devono sapere che non si potrà fare granché né sul piano liturgico, né sul piano ecclesiale. Se resta sempre valido anche ciò che abbiamo rinnovato solennemente da 50 anni, anche tutto il resto sarà trattato così. E per quanto ancora dovremo insistere per segnalare che domani è la Domenica in Albis, l’Ottava di Pasqua, e che tutti i temi devozionali, spirituali, penitenziali non possono che collocarsi dietro a questo, e non davanti, come un’altra forma rituale? Che è solo la pretesa di una “doppia forma rituale” a permettere di celebrare persino il Venerdì e il Sabato santo come il primo giorno e il secondo giorno di una novena di devozione?

Il rapporto tra riforma della liturgia e riforma della Chiesa non è mai stato tanto chiaro come in questi giorni. Chi lo capisce, e svolge nella Chiesa il mestiere di teologo, non deve tacere, deve dirlo, nel modo più chiaro e più limpido possibile. Questa non sarà e non potrà mai essere la soluzione di ogni problema. Ma è la difesa ecclesiale e formale, piena e convinta, di un progetto comune e di un orientamento chiaro, dal quale non si può e non si deve deflettere. Per la Chiesa del futuro non sarebbe una piccola cosa.

Perché se una Chiesa è unita, è unita anzitutto nella liturgia, che è l’espressione più elementare della fede. Ma se nella liturgia la divisione è concepita come normale, o addirittura come normativa, un cammino davvero comune risulterà escluso addirittura per principio. E tutto resterà irrimediabilmente fermo. E in quel caso il teologo non potrà dire: “non me ne ero accorto”.

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