“Fa’ la cosa giusta”. Genealogia rituale e teoria delle forme parallele del medesimo rito


ED

 

Il dibattito ecclesiale, che si interroga sulle involuzioni della tradizione liturgica, può elaborare strategie di azione e modi della riflessione tra loro assai differenziati. In questo dibattito il ruolo del teologo sistematico consiste nel porre questioni di ermeneutica della tradizione e nel controllare l’opportunità nell’uso delle categorie implicate in tali interpretazioni. Come è evidente, al centro della questione sta una coppia di categorie sistematiche, inventate dal MP Summorum Pontificum, mediante le quali è possibile ridurre una questione di senso della tradizione liturgica ad una burocrazia che amministra diritti soggettivi. Le due categorie sistematiche più problematiche che si trovano nel documento – una di carattere giuridico e l’altra di carattere sistematico – sono le seguenti:

a) La riduzione della “autorità della azione rituale” all’esercizio di un “diritto del chierico”, che può scegliere liberamente una o l’altra forma del rito romano, quando celebra senza popolo (SP, art. 2). Questo scadimento della “forma rituale” a diritto soggettivo del ministro ordinato compromette sul piano sistematico il significato complessivo della azione rituale in rapporto alla fede e alla economia della esperienza ecclesiale. Fa del rapporto con la forma rituale il frutto di un “attaccamento soggettivo”, che scavalca ogni autorità ecclesiale: se la vede direttamente con Dio (e con la commissione Ecclesia Dei) senza nessun altro riferimento territoriale.

b) La teorizzazione di “due diverse forme” (ordinaria e straordinaria) come espressioni differenziate dello stesso rito romano (SP art. 1) costituisce allo stesso tempo la elaborazione di una “ardita profezia visionaria”, con intento di pacificazione, ma anche la invenzione di una “pericolosa ipostasi astratta”, che spalma sul presente una dinamica storica conflittuale, pretendendo di rendere sincronica e irenica la diacronia di una critica e di un superamento. Così la sua “utopia” si converte rapidamente in una “distopia”.

Non si può negare che, nel testo di Summorum Pontificum si sia cercato di offrire un precaria copertura a questa “nuova e azzardata disciplina giuridica” (a) mediante la sua “giustificazione sistematica” (b). Ma su entrambi i versanti, della struttura disciplinare e della sintesi dogmatica, le cose entrano in grave contraddizione e non riescono a conseguire l’effetto desiderato. Il dispositivo giuridico e quella sistematico entrano in risonanza, creano un rimbombo e arrivano ad interferire tra loro, avendo, come effetto, una duplice lacerazione: della disciplina della liturgia e della teoria che la dovrebbe giustificare. Non si riesce più a “fare la cosa giusta” perché non si pensa più rigorosamente la tradizione. E il pensiero azzardato di un parallelismo astratto tra forme diverse tenta di trasformare in fatti inoppugnabili quelle strategie che di fatto costituiscono pratiche di opposizione ideologica alla liturgia scaturita dal Concilio Vaticano II. E a fronte di tali strategie a nulla valgono dichiarazioni formali contrarie.

Ed è curioso che alcuni soggetti ecclesiali autorevoli, anzitutto i canonisti, ma spesso anche teologi sistematici di non poca esperienza, non riescano a pensare fino in fondo le parole che stanno utilizzando quando parlano di questo tema. Questo sarebbe un compito centrale del teologo sistematico: pensare bene quello che sta dicendo. Proviamo a farlo qui, a modo di esempio e in forma creativa.

1. Due “forme rituali” e la loro genealogia

La teoria secondo cui il “rito romano” – come lex orandi della Chiesa cattolica ed espressione della sua lex credendi – si presenterebbe in due forme (ordinaria e straordinaria) che esprimerebbero la medesima fede, è un dispositivo teorico che permette (e promette) di configurare lo spazio potenziale di una grande riconciliazione, ma lo fa al prezzo troppo alto di una totale astrazione, senza radice nel reale. Essa, infatti, astrae dalla storia complessa e controversa, che ha generato, dopo una “forma straordinaria” del rito romano, una “forma ordinaria”. Questo successione non è avvenuta per un “gioco di società” o “come in una scoperta geografica”, ma per una urgenza pastorale inaggirabile. La astrazione, che si paga a caro prezzo, è l’ oblio pesante e sordo che in tal modo viene fatto calare sulle ragioni che hanno portato da una forma all’altra. Perché non si tratta di due forme che, autonomamente siano sviluppate, una a Milano e l’altra a Roma, una in Italia e l’altra in Ispagna, una per tutti e l’altra solo per i domenicani, per i francescani o per i gesuiti. No, è lo stesso medesimo rito romano che da una forma precedente è stato autorevolemente riformato, per la volontà di più di 2000 vescovi, nella forma successiva. Anche la terminologia della aggettivazione – ordinario/straordinario – contribuisce ad alimentare questo rischioso oblio sulla storia. Si dimentica che la “diversità” del rito straordinario è la ragione che ha fatto sorgere quel processo che ha prodotto, dopo anni di accurata elaborazione, il rito ordinario. Sistematicamente, dunque, la distinzione tra le due “forme” è il tentativo di traduzione sincronica di una storia di mutamento urgente e qualificante, nel quale un Concilio ecumenico ha giocato il futuro della Chiesa. Di questa storia non si può tacere la realtà, ma anche i passaggi traumatici e necessari. Una tradizione che ha saputo evolvere, cambiare, adattarsi, precisarsi. Come, per l’ultima volta è accaduto tra il 1960 e il 1970.

2. Il divenire di una illusione: la storia non si può cancellare

Il rito del 1962 è l’ultima versione del rito tridentino, ed è il frutto di una piccola e provvisoria riforma compiuta da Giovanni XXIII a partire dal 1960. Giovanni XXIII si era limitato a pochi fondamentali interventi, proprio perché sapeva che di lì a poco si sarebbe tenuto un grande Concilio, che tale Concilio avrebbe stabilito gli “altiora principia”, in base ai quali si sarebbe proceduti ad una grande riforma del rito romano. Che fu effettivamente compiuta negli 8 anni successivi, mediante l’iter di elaborazione dei nuovi riti. Se si analizza serenamente questa storia, si capisce immediatamente che la logica di questo processo non può approdare in nessun caso a “due forme dello stesso rito”, bensì “allo stesso rito in una (sola) forma nuova”. Perciò a me pare che, proprio sul piano sistematico, risulti del tutto fuorviante parlare di “due forme dello stesso rito”. Bisogna parlare, piuttosto, dello stesso rito che passa da una forma inadeguata (giudicata tale esplicitamente dal Concilio Vaticano II) ad una forma adeguata. Chi mai potrebbe credere che la Chiesa abbia celebrato un Concilio ecumenico, abbia istruito commissioni, abbia elaborato documenti, stilato e approvato nuovi ordines, solo per poi teorizzare che alla nuova forma adeguata il singolo prete e anche comunità, a certe condizioni, avrebbero potuto sempre sostituire la forma inadeguata? Le parole giuste, per descrivere le due forme sul piano storico, sono: è lo stesso rito romano, prima nella forma inadeguata e che poi viene riformata nella forma adeguata. Qualsiasi teorizzazione di un possibile parallelismo tra forma inadeguata e forma adeguata deve far dimenticare questa genealogia e tenta di mettere sullo stesso piano ciò che non può stare sullo stesso piano. Come se leggessimo la biografia di una persona come un “accumulo” di forme, e non come un “passaggio” tra forme. Come se la musica del giovane Beethoven e quella dell’ultimo Beethoven non fossero uno sviluppo irreversibile, misterioso e potente, ma una semplice opzione tra diverse espressioni della medesima identità. L’espressione “forme diverse dello stesso rito” acquisisce il suo giusto significato solo sul piano storico, ma diventa un sofisma vuoto se si pretende di assumerla sul piano sincronico. Al centro di Summorum Pontificum vi è, dal punto di vista sistematico, un sofisma astratto, senza fondamento storico e senza praticabilità effettiva. Esso poteva essere giustificato, come lo è stato, come tentativo di favorire una profezia di comunione contro le logiche di uno scisma. Ma si è rivelato, invece, fallimentare, a causa di questa sua debolezza sistematica originaria, dalla quale non ha mai potuto emanciparsi.

3. Forme diverse dello stesso rito, ma in divenire

Anche nella vita non possiamo evitare di pensare la identità nel suo divenire, secondo forme diverse. La stessa persona ha una forma a 5 anni, un’altra a 40 e un’altra ancora a 80. Ma la sua identità non viene dall’accumulo di queste forme. Per essere giovane lascio l’infanzia e per essere adulto lascio la giovenizza e per essere anziano lascio la maturità. Non le lascio mai del tutto, certo, ma le porto con me nella fase nuova in cui mi trovo a vivere. Comunque, non posso essere, contemporaneamente, infante e anziano, maturo e giovane. E la mia continuità non dipende dalla contemporanea scelta di diverse forme, ma dall’assumere pienamente la storia delle mie diverse forme. La vita della Chiesa è come la vita delle persone: sperimenta il mutare delle forme senza perdere la identità in questo divenire. Ma non è obbligata a “poter essere ancora se stessa” solo a patto di assumere, di volta in volta, di giorno in giorno, una delle diverse forme del suo sviluppo.

Quando uscì prima il MP Summorum Pontificum e poi, nel 2011, la Istruzione Universae Ecclesiae, restai colpito per il fatto che alcuni teologi, tutt’altro che sprovveduti, non cogliessero affatto la questione sistematica che stava al centro di questi testi, con tutta la loro problematicità, e addirittura parlassero, per questi documenti, di una “lezione di stile cattolico”. A mio avviso questo giudizio non è per nulla convincente. Lo stile cattolico custodisce l’unità dell’azione rituale. Ma come si può custodire l’unità se si separa il “rito” dalla sua “forma”? Se cioè si separa il “rito romano” dalla sua “storia delle forme”? La storia del rito romano degli ultimi 60 anni è il passaggio da una forma inadeguata ad una forma adeguata. E la identità del rito romano – che rimane sempre lo stesso rito – si comprende in questo “passaggio” e nella sua irreversibilità storica. Se, istituzionalmente, si pone una disciplina che permette ad ogni parrocchia e anche ad ogni singolo di poter passare, anche quotidianamente, da una forma all’altra del medesimo rito – indifferentemente, quasi a capriccio – questa ambiguità e oscillazione si rivela, più che una affermazione di identità, come una perdita di stile e una mancanza di gusto cattolico. La teologia sistematica è responsabile delle ragioni con cui giustifichiamo le nostre azioni e le nostre omissioni ecclesiali. Proprio nel cuore di SP la ragione sistematica, che regge tutta la impalcatura disciplinare del testo, appare singolarmente debole. Una astrazione, che ha voluto essere profezia di comunione, si dimostra, a causa di questa sua originaria astrattezza, come un motivo di divisione e di lacerazione. Una analisi accurata a livello sistematico esibisce le ragioni che impongono la fuoriuscita da questo dispositivo di emergenza, che non risponde più – e forse non ha mai risposto – alle esigenze per cui è stato creato. Bisogna riconoscere che il Card. Ruini, nel giorno successivo a quello in cui SP fu pubblicato, apparve facile profeta quando scrisse, sull’Avvenire dell’8 luglio 2007, che bisognava evitare “il rischio che un Motu Proprio emanato per unire maggiormente la comunità cristiana sia invece utilizzato per dividerla”. A distanza di 13 anni, questo timore può diventare parola chiara dei teologi e azione risoluta degli ufficiali. Mettiamo fine a questo stato di eccezione che genera illusione e divisione. Mediante un rigoroso ripensamento della tradizione, che non si lasci depistare da concetti ambigui e da visione astratte, la Chiesa può finalmente dire a se stessa: “Fa’ la cosa giusta”. E può farla subito, uscendo da discipline giuridiche aberranti e da sintesi sistematiche astratte.

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