I contributi che compongono questa sezione di Munera sono tratti dal libro a più voci Eredi di una rivoluzione ancora scomoda. L’attualità di Basaglia nei luoghi della cura, dell’arte, delle istituzioni, uscito nel dicembre dello scorso anno come numero monografico della rivista L’Ippogrifo. Il testo raccoglie gli interventi di due convegni svoltisi a Udine e Gorizia nell’ottobre 2024, anno del centenario della nascita di Franco Basaglia.
La pubblicazione non voleva essere una celebrazione, anche perché in questo difficile momento della storia dei servizi non è certo il caso di indulgere nella retorica o cedere alla nostalgia del passato, ma di pensare, piuttosto, a come rivitalizzare il patrimonio ereditato. A proposito di eredità, cade qui bene una citazione dall’ultimo libro di Federica Manzon, Alma, ambientato a Trieste: “Le reliquie tornano di moda, persone che vengono adorate come avessero poteri magici … il passato è come una pietra che ti viene legata alla caviglia… più pesante è la pietra meno riesci a nuotare al largo. E le persone che nuotano al largo fanno paura”. Di certo Basaglia era una persona che non nuotava in acque facili, per lui e per chi lo ha seguito si è trattato da subito di «entrare nel rischio», concetto su cui ritorna più volte nei suoi testi del periodo goriziano.
Il problema, peraltro, non era semplicemente la liberazione dei “matti”, ma la più generale umanizzazione delle istituzioni civili. Il fatto di mettere in cattedra il dolore, di farlo parlare, rappresentava e rappresenta sempre il tentativo di salvare la città dal proprio stesso imbarbarimento affinché essa non si riduca ad essere un semplice agglomerato dedito al commercio, allo spettacolo e al culto dell’eterno presente, dimenticando così la propria vocazione di luogo dedito all’accoglienza e alla memoria.
Sappiamo bene, lo sanno gli addetti ai lavori e lo sanno le famiglie in primis, quanto sia oggi importante tenere vivo il dibattito sullo stato di salute delle nostre istituzioni rilanciando, alla luce delle contingenze del nostro tempo, lo spirito che nel ‘78 ha ispirato la 180 e la legge 833 di riforma del Sistema Sanitario Nazionale, tracciando le linee di una Medicina di Comunità di cui stiamo perdendo le tracce. La salute, va ricordato, non è il benessere, non è in altre parole uno stato delle cose: è, piuttosto, un costante movimento, un generarsi di salute nell’interazione tra servizi radicati nel territorio, utenti, famiglie, cittadini attivi, istanze civili e culturali presenti in una data comunità.
Purtroppo l’attualità ci mette di fronte alla continua opera di erosione di quello che è un patrimonio di pratiche e pensieri che hanno fatto scuola; ci mette di fronte all’urgenza di salvare la Cosa pubblica, in quanto Capitale Sociale, dalla massiccia infiltrazione, nel funzionamento delle istituzioni, di logiche privatistiche e aziendalistiche. Siamo ancora, come diceva Basaglia nel 1965, una “società disposta a mettere in discussione le proprie strutture, il mito del benessere e il fine supremo della produttività”?
L’aziendalizzazione della Sanità pubblica (approvata dal Parlamento, col consenso bipartisan di destra e sinistra, alla metà degli anni ‘90) ha visto il prevalere di un criterio di gestione dei servizi basato sulla logica dei costi/benefici, e da qui su una modellistica procedurale che si vorrebbe spacciare per scientifica, la pianificazione a tavolino degli interventi e la standardizzazione delle pratiche. Processi di automazione che, come tali, da un lato impoveriscono e non tengono conto della necessaria complessità delle cure, mentre dall’altro non intercettano i reali bisogni della comunità perché forniscono prestazioni prima di darsi il tempo, e correre il rischio, di ascoltare e confrontarsi con ciò che è realmente importante: le domande che arrivano dai cittadini. Siamo in sostanza passati dall’esclusione di un tempo all’inclusione consumistica di oggi, ma ci ritroviamo comunque con istituzioni ugualmente arroccate nelle loro acropoli, disinteressate a cogliere i fermenti vitali che circolano nell’agorà. E ancora, cosa decisiva, siamo di fronte a direzioni di tipo manageriale che hanno creato una frattura insanabile tra i Piani alti – le direzioni generali – e gli operatori.
Detto questo, cosa può significare fare i conti con un’eredità? Vale la pena ritornare sul tema “eredità”. In Alma, a proposito dei grandi scrittori, è possibile leggere qualcosa che nel nostro caso, pensando a Basaglia, vale anche per i grandi riformatori: “Quando erano vivi nessuno li considerava, li disprezzavano, poi sono morti e tutti si sono messi a ricordarli e a dedicargli statue […] Vi dicono che sono la vostra eredità. A forza di dire così non sono più nati grandi scrittori in città”. È un’altra conferma di come non è contemplando i monumenti che faremo passi in avanti o recupereremo quanto perduto. Il problema, piuttosto, è se col nostro impegno quotidiano riusciremo a essere, magari non dei grandi, ma perlomeno dei discreti scrittori del nostro difficile e a tratti disarmante presente.