Finanza islamica: davvero tanto diversa?


imagesPG08TWOIGli incontri dedicati all’islam si susseguono con crescente frequenza; recentemente si è tenuto in Svizzera il “Dialogo con l’islam”, promosso dal Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa. Le terribili notizie che provengono da Siria ed Iraq rendono urgente il confronto interreligioso per una migliore comprensione e una pacifica convivenza. Il confronto è necessario anche in ambito finanziario: occorre capire cioè in cosa consiste, su cosa si fonda, come si differenzia la finanza islamica e come essa integra o si sovrappone alla finanza convenzionale (cioè a quella svolta nei paesi occidentali). Ma la distanza che le divide è davvero così ampia?

Una finanza basata su principi etici. Per finanza islamica si intende un’attività di gestione dei flussi finanziari, esattamente come avviene in quella convenzionale, ma si differenzia da quest’ultima per il fatto che si basa sulla sharia, la legge islamica. La sharia non consente innanzitutto il pagamento degli interessi, poiché non permette l’utilizzo del denaro come oggetto di scambio. Il trasferimento di risorse finanziarie è ammesso solo se prevede la partecipazione al rischio di impresa. L’investitore in altre parole può sottoscrivere una quota di capitale ed ottenere in seguito, a scadenze pattuite, la partecipazione agli utili conseguiti. Così nel caso dei mutui, la banca compera la casa e la famiglia paga una sorta di rata mensile per poi al raggiungimento della somma complessiva ottenerne la proprietà. Un altro elemento di diversità è dato dal divieto di finanziamento di attività quali la prostituzione, il gioco d’azzardo, le armi e l’alcool. Le disposizioni islamiche prevedono la certificazione halal che garantisce che i prodotti, specie gli alimentari, seguano i dettami della sharia nella produzione, nel confezionamento e nella distribuzione.

Di dimensioni ancora modeste, ma in rapida crescita. Nonostante i significativi tassi di crescita degli ultimi anni, il totale attivo della finanza islamica è stimato pari a circa 2000 miliardi di dollari, corrispondente ad una parte molto modesta (circa il 2%) del totale attivo delle banche nel mondo. L’esercizio della finanza islamica è concentrato in alcuni paesi asiatici, in Malaysia, in primo luogo, nonché in alcuni paesi arabi, quali Dubai.

Molti sono gli interrogativi sull’argomento, a cui è difficile dare una risposta esaustiva e definitiva. Per capire meglio però ci si può avvalere degli studi di istituti di ricerca internazionali che seguono costantemente l’argomento.

Qual è il contributo della finanza islamica allo sviluppo? È interessante chiedersi prima di tutto in quale misura la finanza islamica contribuisca allo sviluppo di un paese. Secondo una interessante ricerca condotta dal Fondo Monetario Internazionale (“Is Islamic Banking Good for Growth?”, n. 81/2015) anche la finanza islamica contribuisce – come la finanza convenzionale – alla crescita di un paese per il fatto che di per sé la “finanza” favorisce lo sviluppo, ma non vi sono elementi per poter dire che essa lo favorisca più di quella convenzionale. La finanza islamica mostra alcuni “vantaggi”, sempre secondo la ricerca citata: innanzitutto favorisce il credito a persone che non dispongono di garanzie (“escluse” almeno in parte dalla finanza convenzionale), poiché il presupposto che entrambi, il debitore e la banca, devono ripartirsi il rischio dell’investimento, dividendo profitti e perdite, incoraggia l’indebitamento fra i prenditori che non hanno assets da poter dare in garanzia; la finanza islamica inoltre può sostenere il risparmio specie da parte di individui che cercano la sicurezza di investimenti conformi alla sharia; essa può sostenere la stabilità finanziaria poiché alle banche islamiche è imposto un particolare equilibrio fra attivo e passivo (i depositi a breve finanziano cioè attività a breve termine, i fondi raccolti a lunga scadenza finanziano investimenti a scadenza protratta); le banche islamiche mostrano elevati indici di patrimonializzazione e non possono svolgere attività speculative. Per contro, i punti di debolezza riguardano le loro modeste dimensioni, e quindi i costi più elevati, nonché la mancanza di strumenti liquidi cioè rapidamente trasferibili sul mercato e una modesta diversificazione delle attività che aumenta il rischio di fallimento (se erogano solo mutui per la casa, una eventuale crisi del mercato immobiliare le trascina nel fallimento, poiché non possono compensare le perdite con utili conseguiti in altre attività).

Lo sviluppo economico e sociale è sostenuto dall’inclusione finanziaria. Ci si può chiedere quindi se la finanza islamica favorisca l’utilizzo di strumenti finanziari da parte di imprese e famiglie. Facendo riferimento ad un’altra ricerca del FMI (“Can Islamic Banking Increase Financial Inclusion?”, n.31/2015), attualmente la diffusione degli strumenti finanziari tende ad essere più modesta nei paesi musulmani e la quota di “esclusi” per cause religiose è nettamente più elevata rispetto agli altri paesi. Inoltre, nonostante l’accesso fisico agli strumenti finanziari sia aumentato notevolmente anche nei paesi islamici, l’uso di tali strumenti non si è accresciuto altrettanto rapidamente. Tali risultati sembrano dirci da un lato che esistono ampi spazi di crescita per la finanza nei paesi musulmani ma nel contempo che essa è chiamata ad avvicinarsi alle necessità della clientela, anche con prodotti e modalità nuove pur nel rispetto dei principi etici fondanti.

Una distanza incolmabile? I principi cardine su cui si fonda ed il concreto contributo che la finanza islamica fornisce alla crescita – come abbiamo visto, seppur in estrema sintesi – non sembrano elementi che la differenziano in modo insuperabile dalla finanza convenzionale. La sua diffusione ancora molto modesta nei paesi più evoluti come Londra – peraltro molto favorevole alla sua diffusione – ma anche in molti paesi arabi lo sta a dimostrare, nel senso che essa sembra non rappresentare uno strumento alternativo alla finanza convenzionale. I principi etici non sono fattori esclusivi della finanza islamica. Anche nella finanza convenzionale si deve porre – si dovrebbe porre – particolare attenzione all’etica. Nel contempo nei paesi  occidentali esistono varie black lists che escludono/limitano i finanziamenti a determinati settori (armi…) o a paesi che sostengono attività illecite o il terrorismo. Certo non è molto; l’etica richiede molto di più, ora che la corruzione sembra dilagare ovunque.

Allo stesso modo, il mancato pagamento degli interessi non ci sembra un ostacolo insormontabile: la partecipazione al capitale può rappresentare una analoga forma di remunerazione (peraltro anche il creditore in caso di crisi dell’impresa sopporta di fatto il rischio potendo perdere in tutto o in parte il finanziamento concesso); anche per i cristiani gli interessi, il compenso riconosciuto ad un bene quale il denaro, devono essere adeguati e non eccessivi (normativa contro l’usura).

Qual è il punto di incontro fra le due finanze? La Finanza islamica merita attenzione per le imprese italiane che potrebbero ottenere risorse ingenti dai paesi del Golfo e dai fondi sovrani, nel rispetto delle regole imposte, ma ci sembra che meriti prima di tutto riflettere sul suo significato più profondo. L’insegnamento universale che ne dobbiamo trarre è che essa poggia su un legame fede-uomo inscindibile, che riguarda ogni aspetto della vita umana. Così anche il comportamento economico deve riferirsi all’etica e riflettere principi etici ovunque, nei paesi islamici e nei paesi occidentali, specie oggi che – altrettanto ovunque – appaiono dimenticati e lontani. Le modalità concrete di attuazione spesso sono difficili da trovare, ma su questo bisogna lavorare.

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