La coesistenza pacifica


«Se l’inflazione perdura, investite in una mucca. Non solo manterrà il suo valore, contrariamente al vostro conto corrente, ma può offrire rendimenti interessanti riproducendosi. The Economist informa che la società Nhaka Life Assurance, dello Zimbabwe, ha ideato questo collocamento finanziario per combattere l’inflazione. Tanto alta che gli investimenti non possono essere espressi in valuta locale, in breve perderebbero ogni valore. I risparmiatori investono perciò in ‘parti di vacca’, allevata a qualche decina di chilometri dalla capitale. Con l’inflazione ora principale minaccia per l’economia mondiale, lo Zimbabwe è un paese ricco di insegnamenti. Anche la situazione economica è singolare e rammenta che, nelle nazioni in via di sviluppo, l’inflazione può rapidamente condurre alla catastrofe sociale e umanitaria. Nello Zimbabwe la discesa agli inferi è stata rapida. Nell’estate 2008, incisa maledetta nella memoria, i prezzi raddoppiavano ogni ventiquattro ore». «L’inflazione ha ridotto la speranza di vita di dodici anni e fatto migliaia di morti a causa della fame, degli ospedali chiusi e della penuria di medicinali, senza parlare dell’esplosione della povertà». «Certo, i paesi in via di sviluppo non sono a questo punto. Ma sono più fragili che mai per l’ascesa frenetica dei tassi di interesse americani, uscita dei capitali e deprezzamento della moneta» [Julien Boisseau, «L’inflation, la vache et les taux d’intérêt américains», [Le Monde, 29/10/22, p. 32].
«Gli ‘affari’ non sono un raffreddore della democrazia che distrae dall’essenziale, avverte Fabrice Arfi, “ma alimentano una fatica morale che apre la via al peggio: l’estrema destra tradizionalmente forte solo delle debolezze altrui”». «Sorvoliamo in questo piccolo libro sui tic di scrittura inclusiva, “magistrato-i specializzato-i” e “abbandonato-i”, per riflettere sulle promesse di Emmanuel Macron nel marzo 2017: “La giustizia è il cuore del nostro progetto perché l’indecenza, i privilegi sono durati troppo a lungo e noi vogliamo regole uguali per tutti. Quale che sia il loro stato, vogliamo dirigenti responsabili, esemplari e che rendano conto”» [Franck Johannès, DÉBOIRES JUDICIAIRES AU SOMMET, recensione a Fabrice Arfi, Pas tirés d’affaires, Seuil 2022, ivi].
«Da inizio anno, specie nelle ultime settimane, la Repubblica Democratica di Corea ha lanciato un numero record di missili, scalata di provocazioni simile a quella prima dell’esperimento nucleare di cinque anni fa». «“Non potrebbe esserci situazione migliore per Pyongyang”, dice Lee Sangsoo, Institute for Security and Development Policy di Stoccolma, intervistato da Le Monde. “Cina e Russia la sostengono perché aumenta il suo valore strategico a fronte degli Stati Uniti”. Due volte, a maggio e ottobre, Mosca e Pechino hanno posto il veto a nuove sanzioni contro la RDC per i lanci missilistici, “giustificati” ai loro occhi dagli atti ostili degli Stati Uniti». «Il sostegno verbale, ma non militare, di Cina e Russia ha rafforzato nei dirigenti nordcoreani la convinzione di poter contare solo su se stessi». «Potenza nucleare non riconosciuta come tale, e tuttavia reale dopo l’esperimento del 2017, la RDC perfeziona l’arsenale». «Il regime di Pyongyang è tanto più incoraggiato a un nuovo esperimento nucleare perché sa che, dietro cori di condanne, posture diplomatiche e avvertimenti, le opzioni degli avversari sono limitate». «La strategia di denuclearizzazione della Corea del Nord è fallita. I leader di tutto il mondo ne sono consapevoli, ma nessuno osa riconoscerlo. Il solo negoziato possibile, asseriscono Lee Sangsoo e Andreï Lankov dell’università Kookmin a Seul, può riguardare un accordo per il controllo degli armamenti che equivale a accettare l’esistenza di una nuova potenza nucleare. Riconoscimento che minerebbe una volta di più (dopo i precedenti indiano e pakistano – e israeliano, su cui Washington chiude gli occhi) la dottrina di non proliferazione. Inaccettabile per Stati Uniti e loro alleati che vi vedrebbero un incoraggiamento per paesi come l’Iran aspiranti a dotarsi dell’arma nucleare» [Philippe Pons, «Dénucléariser la Corée du Nord, un objectif irréaliste», ivi].
Fondamenta del mondo è tuttora la coesistenza pacifica.
La coesistenza pacifica. Illusioni politiche e realtà economiche [tr.it. Einaudi 1961] di François Perroux, sessant’anni fa richiamava la nostra attenzione su «coesistenza ostile e avvento dei poteri mondiali». «Sotto la parvenza del realismo, si abbozzano e prospettano opinioni incoerenti, di carattere emotivo, su avvenimenti che vengono isolati dal loro contesto storico e staccati dalle loro premesse e conseguenze». «Uno di essi è la minaccia che incombe sulla specie. Non dipende dalla prossima guerra ma da uno stato presente»: l’energia atomica. «La sopravvivenza della specie dipende di conseguenza da un accordo tacito o esplicito, o da un atto autorevole di portata universale», perché «gli uomini, nel loro complesso, non si sono ancora mostrati capaci di nutrirsi, curarsi e ottenere i servizi e il capitale, di cui si avvantaggia un piccolo numero di popoli e di classi». «Immediatamente e in superficie, la coesistenza ostile ostacola l’instaurazione di un potere mondiale. Essa aggrava e approfondisce i pericoli che, a un certo momento, lo renderanno necessario. Cambia rivoluzionariamente l’atmosfera, comincia a insegnare ai popoli relativamente privilegiati come sia vano dare tanto peso alle questioni di denaro, allorché le condizioni elementari della vita di tutti gli uomini meriterebbero d’essere considerate seriamente». «Nel grande conflitto, le nazioni e le loro coalizioni si costringono reciprocamente a rispondere con i fatti a queste domande: in nome di che cosa accettate di essere governati? In nome di che cosa governate?» [pp. 475-6].
Allora come ora, «i grandi cartelli petroliferi si trovano con i loro rispettivi stati in una tale simbiosi, che è opportuno considerarli come monopoli misti: contemporaneamente pubblici e privati». «Non esiste un’alta autorità mondiale del petrolio, sia pure dotata delle precarie e fittizie garanzie della CECA», la Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio istituita a Parigi nel 1951, seme dell’UE. «Siccome le nazioni, da sempre inegualmente provviste di energie, materie prime, prodotti alimentari, hanno ancor oggi una ineguale capacità d’usare armi decisive, molti dei poteri cosiddetti nazionali hanno, da gran tempo, cessato di presentare tale carattere». «I nazionalismi si moltiplicano ma diminuisce il numero delle nazioni degne di questo nome» mentre «le autorità costituite, anche le più importanti per estensione e competenza, non sono affatto mondiali» [pp. 477-8].
«L’ONU è come ogni istituzione una specie di armistizio a contenuto intercambiabile, di cui bisogna salvaguardare tutte le possibilità di successo nei conflitti tra i grandi gruppi umani interessati». «Se alla tragica contrapposizione tra poteri effettivi e poteri legittimabili non vi fosse altra soluzione che la guerra, l’economista pienamente consapevole dei propri intendimenti e dei mezzi che gli offre la sua specifica competenza, non avrebbe più nulla da dire; preconizzando o accettando la distruzione degli esseri e delle cose utili egli cadrebbe in intima contraddizione. Il suo compito è di cooperare, sul proprio piano ed entro i propri limiti, alla conservazione della specie e al pieno sviluppo, in ciascuno, delle forze della vita. Oggi egli fa questo dicendo in qual modo, al di là delle alienazioni e delle mistificazioni del denaro e della ricchezza, si può definire e preparare l’impiego migliore e più completo delle risorse materiali e umane. Tuttavia tale impiego può essere organizzato solamente su scala mondiale e mediante l’instaurazione d’una autorità politica che esprima la società politica mondiale e si delinei nello stesso processo della coesistenza ostile» [pp. 479-80].
«Il mondo va incontro a mutamenti irreversibili nel periodo lungo o lunghissimo […] provocati dai progressi tecnici dei trasporti, delle produzioni e delle informazioni, dalla memoria collettiva delle società umane e dal perfezionamento dei suoi strumenti, dalla costruzione d’un tempo economico più esteso di quanto non lo siano previsione, progetti e piani delle attività economiche. Siamo nell’epoca in cui il potere di coordinamento e di arbitrato che si esercita in una nazione o, sotto forme più duttili, nelle istituzioni e negli accordi internazionali, diviene necessario su scala mondiale». Ormai «la nazione è impotente a provvedere alla propria sicurezza», «nessuna delle grandi coalizioni può procurare ai paesi sottosviluppati i mezzi di cui ha bisogno» e «le grandi potenze adottano tutte la migliore soluzione di ripiego» perché ogni «paese-centro risponde tenendo conto dei limiti ch’esso stesso desidera allo scopo di mantenere la propria posizione di paese-centro» [pp. 480-1].
A tutto ciò si contrappone «la realtà delle regioni transnazionali», «celata dagli sforzi brutali e disperati degli stati nazionalisti e imperialisti, i quali tendono a conservare la quasi proprietà delle loro risorse e dei loro mercati, a beneficio delle loro popolazioni» [p. 482].
Ma «una linea di frontiera (così come è indicata convenzionalmente su una carta geografica), non appena viene studiata sul terreno risulta essere una zona e non più una semplice linea. Una linea di confine separa due giurisdizioni; ma, sia nel caso che le due comunità, divise l’una dall’altra, siano sostanzialmente simili tra loro, come la Francia e l’Italia, sia nel caso in cui fra l’una e l’altra esistano notevoli disuguaglianze, come fra l’India e il Tibet, il punto di massima differenziazione dev’essere ricercato vicino al centro di gravità di entrambi i paesi e non lungo la frontiera dove essi si uniscono. Una popolazione di frontiera è una popolazione marginale. Per fare un esempio facilmente comprensibile, là dove l’esistenza di un confine è messa fortemente in rilievo da tariffe doganali che colpiscono esportazioni e importazioni, è normale che molta gente – al di qua e al di là della frontiera – si dedichi al contrabbando. La lealtà politica di un abitante della zona di frontiera nei confronti del proprio paese viene, in tal modo, profondamente modificata dall’interesse individuale, che lo spinge a intrattenere rapporti illegali con gli stranieri abitanti al di là del confine». «Non è da stupire, allora, se l’ambivalenza e l’equivocità dei popoli di frontiera costituiscono spesso un fenomeno di notevole importanza storica» [Owen Lattimore, La frontiera, tr.it. Einaudi 1970, p. 406].
L’UE, per dire, dopo secoli di guerre di sterminio e confini in movimento per nazionalismi ora senza più nazione né ragione, tantomeno economica perché l’economia si vede ma non si situa, è un sistema di relazioni osteggiato da gruppi di potere autoreferenziali, come accade oggi nella crisi del gas con la distruzione del Nord Stream 2, la correlata speculazione selvaggia e globale sul prezzo del gas e a cascata su tutto ovunque. L’economia vive solo nella democrazia, nel libero e giuridicamente regolato confronto di intenzioni e interessi, anche ma non solo materiali, che insieme costruiscono un bene condiviso e, nella durata, il bene comune anche economico della cittadinanza.
Cittadini, «non spettatori: attori. Le loro particolari situazioni mettono uno schermo tra il dramma ch’essi vivono e il ruolo che credono di recitare. Si crede di morire per la Patria e si muore per gli Industriali. Si crede di morire per la Libertà delle Persone e si muore per quella dei Dividendi. Si crede di morire per il Proletariato e si muore per la sua Burocrazia. Si crede di morire per una nazione e si muore per dei banditi che la imbavagliano. Si crede… ma come si fa a credere in mezzo a un’ombra così fitta? Credere, morire… quando si tratta d’imparare a vivere?» [Perroux, cit., p. 490].
Nell’UE impariamo a vivere e, dopo il fallimento neoliberista, «la nuova fase della globalizzazione sarà probabilmente selettiva: un’integrazione per blocchi di Paesi legati da affinità elettive di tipo non solo economico, ma anche politico e sociale» [Gianmarco Ottaviano, Riglobalizzazione, Egea 2022, cit. in Paolo Bricco, «La globalizzazione va capita bene e reinterpretata», Il Sole 24Ore Domenica, 09/10/92, p. II]. Nella crisi ambientale da noi stessi provocata siamo già tutti cittadini del mondo, che sempre più numerosi migrano in cerca di salvezza e dignità, mentre tutti abbiamo interesse a agire come tali perché, «prima che i mutamenti nelle istituzioni e nelle strutture mentali abbiano liberato le società industriali dal loro dogmatismo, può accadere l’irreparabile» [Perroux, cit., p. 495]. «Sull’orlo dei pericoli estremi, comprendiamo meglio che ogni mattino è, per l’uomo, quello d’un primo giorno di creazione» [p. 18].
«Tutto sta a immaginare nuovi mezzi – fiscali, parlamentari, giudiziari – per esercitare un minimo di controllo sugli apprendisti padroni del mondo» [Philippe Bernard, «Des milliardaires à la tête du monde», Le Monde, 30-31/09/22, online]. In UE stiamo faticosamente imparando che l’economia è fatta di interazioni pensate, discusse, concordate e realizzate, mentre «comprendere il mondo, oggi, significa comprendere la Russia. Un modo inusuale, ma efficace, per farlo è attraverso i suoi criminali. Perché il regime russo è il culmine di una transizione al mercato e alla democrazia profondamente viziata dal furto generalizzato, dalla repressione del dissenso e dall’alleanza tra criminalità e politica» [Federico Varese, La Russia in quattro criminali, Einaudi 2022, prima di copertina]. Nel laboratorio Italia, «è la capacità di cui ha dato prova la signora Meloni di essere il paradossale veicolo di una continuità con un sistema ancor ieri combattuto, ben più che la sua figliazione con la realtà polimorfa che fu il fascismo, a esigere ora ogni attenzione. Perché è ciò che le lascia le mani libere sui temi identitari e conservatori, i soli sui quali dispone di uno stretto margine di manovra politica» [Allan Kaval, «Gorgia Meloni et l’héritage en trompe-l’œil du fascisme», Le Monde, 01-02/11/22, online].

ALLEGATO
In cambio, insieme
Giuseppe Gario
Milano, 8 marzo 2015

La burrasca della crisi rimescola le acque e riporta a galla anche il nazionalismo, con volti diversi.

Uno è il nazionalismo superato dalle donne trentine deportate in Austria nel 1915 all’entrata in guerra dell’Italia, annuncio dei lager della seconda guerra mondiale e dei campi profughi oggi. Tre di loro hanno scritto pensieri e esperienze, riversati da Elena Marino in forma drammatica e teatrale col titolo Voci nella tempesta e la Compagnia Teatrincorso. «Siamo austriaci come voi, anche se parliamo italiano» dice una di loro. Appartenere alla stessa comunità pur parlando lingue diverse, è il fondamento dell’Unione Europea, erede della «guerra nella guerra» combattuta allora dalle donne trentine «su molti più fronti: per la giustizia e la verità, prime vittime belliche, per il senso d’umanità, per la dignità dell’essere umano in quanto tale» (www.teatrincorso.it). Il successo del debutto a Bolzano il 21 febbraio 2015 è stato preceduto da un seminario di presentazione che aveva tra il pubblico il figlio di una donna deportata, giunto a tarda età anche perché nel 1943 a Cefalonia gli risparmiò la vita un compaesano di lingua tedesca.
Sul fatto che in Europa le lingue uniscano più che dividere «il linguista francese Antoine Meillet, vissuto tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, ha scritto una pagina molto illuminante a proposito del vocabolario, quello della cultura quotidiana ma anche quello intellettuale, sostenendo che “a dispetto dei nazionalismi miopi, in realtà un’analisi spassionata del lessico delle lingue europee dimostra che vi è un fondo comune molto superiore alle differenze». Lo ricorda Tullio De Mauro, e accenna alle reti di condivisioni che l’hanno formato, dalla diffusione e adozione dell’alfabeto greco «(di origine fenicia, come la ninfa Europa)» agli «”astratti” ideali delle grandi comuni utopie, le parole e i testi in cui si sono concretate, l’Utopia appunto di Tommaso Moro, le parole della Rivoluzione francese, liberté, égalité, fraternité, il Manifesto per eccellenza; il regime parlamentare» [In Europa son già 103. Troppe lingue per una democrazia?, Laterza, 2014, pp. 60 e 13-14].

L’altro è il nazionalismo riesumato da Putin dopo il tritacarne neoliberista del mercato istituzione assoluta, padrone della politica, religione e società: primo esperimento europeo di shock economy, di neoliberismo imposto in pochi mesi nel momentaneo vuoto politico, sociale e economico dovuto a un disastro (nel caso, un colpo di stato). Quando subentrano delusione e rabbia contro le crescenti ingiustizie e miserie neoliberali, il nazionalismo è la reazione più ovvia, basta un leader capace di fare leva su delusione e rabbia, cerino che dà fuoco alle polveri.
Al volto di Putin sono associati, anche tramite le tesorerie di partito, quelli di Marine Le Pen e altri leader cosiddetti populisti in un’Europa appunto accusata di fare solo gli interessi dei potenti. Hanno i tratti fascisti della paura del futuro di parte dei ceti popolari e medi, all’istintiva ricerca di capri espiatori da espropriare. Così in Europa è tornata la guerra tra Stati, non più ‘umanitaria’ come nell’ex Jugoslavia.
Guerra rivelatrice. Il premier inglese Cameron è criticato dall’ex vice-comandante supremo NATO generale Richard Shirref, per l’inazione che lo rende «insignificante in politica estera»; e da Rory Stuart, presidente conservatore della commissione difesa dei Comuni, per una lotta contro lo Stato islamico di «impressionante modestia» [Le Monde, 24/02/2015, p. 14]. Il 20 febbraio la Camera dei Lord britannica, in un rapporto sulla Russia, individua «una forte componente di sonnambulismo» dell’UE nella crisi ucraina. Dopo aver commesso «errori catastrofici», gli Stati membri sono stati «presi alla sprovvista» dal Cremlino e in un anno la crisi è divenuta la più grave dalla guerra fredda. Il riferimento è al libro Così l’Europa dei sonnambuli arrivò alla grande guerra, dello storico Christopher Clark: oggi come allora i governi nazionali non sanno capire la situazione né prendere la giuste decisioni, e Pierre Vimont, segretario generale del servizio diplomatico europeo, conferma ai Lord di essere «molto impressionato dalla competenza» sulla Russia del servizio diplomatico UE anche in confronto alla diplomazia francese [p. 2].

L’UE non ha governo, pur disponendo di un parlamento e di un competente servizio diplomatico. A (non) decidere sono i governi nazionali, impotenti in un mondo interdipendente e interattivo sul piano economico, culturale e tecnologico, ma sul piano politico un puzzle di Stati quasi tutti troppo piccoli e inadeguati per governare gli eventi, o anche solo capirli. Incubatore del nazionalismo autodistruttivo è proprio la finzione giuridica di sovranità in capo a Stati che non l’hanno più, come Hans Kelsen scrisse già nel 1920.
La necessità di dare all’Europa un governo effettivo è confermata dal ruolo assunto dalla Banca Centrale Europea «da quando, esplosa la crisi, si è trovata sola di fronte a governi incapaci di intendersi sulle misure urgenti da adottare in un’area euro istituzionalmente incompleta». «Ormai c’è consenso tra i membri della BCE: tutti valutano che sia stata l’inefficacia degli Stati e della Commissione a spingerli all’azione, e ora basta». Come dice lo stesso Draghi, è ora necessario un migliore coordinamento delle politiche di bilancio: «in altre parole, mirare più alto dall’austerità e puntare sulla cooperazione di bilancio e politica». In chiaro, puntare su un governo europeo [Le Monde Économie&Entreprise, 06/03/2015, p. 2]. Diplomazia UE e BCE sono competenti, ma senza un vero governo europeo, con scarsi risultati.

Ai conservatori e laburisti inglesi in crisi per l’avanzata dei nazionalisti dell’UKIP, The Economist spiega che «devono essere onesti, dicendo francamente agli elettori che le forze del cambiamento tecnologico e della globalizzazione sono inarrestabili e ineludibili – e anni di difficili riforme ci attendono» [21-27/2/2015, p. 11]. Vero, ma non basta. È necessario un processo politico che unisca il mondo nel garantire i diritti umani, «per la giustizia e la verità, per il senso d’umanità, per la dignità dell’essere umano in quanto tale», come ci dicono le voci nella tempesta giunte fino a noi. Purtroppo, per ora abbiamo solo un dinamismo fine a se stesso, energia distruttiva fuori controllo.
«Sarebbe temerario il predire per quali vie dirette e indirette la tendenza all’unificazione del globo, che ogni giorno si fa più piccolo, potrebbe raggiungere la sua meta: soltanto è certo che non vi rinuncerà, dovesse pure avvenire questa cosa miracolosa: che l’umanità dappertutto nello stesso tempo sperimentasse un cambiamento del modo di pensare e abbandonasse il cammino della lotta per il potere, sul quale essa, sferzata dallo scatenato demone della volontà di vivere, avanza furiosamente nonostante l’orrore da cui nel fare ciò viene agitata». Lo ha scritto nel 1948 lo storico tedesco Ludwig Dehio [Equilibrio o egemonia. Considerazioni sopra un problema fondamentale della storia politica moderna, trad. it. Il Mulino 1988, p. 242]. È cronaca di oggi.

Ormai le banche globali, matrici della crisi, sono anch’esse in crisi: «secondo gli standard normali, sono conglomerati inefficienti che stentano a usare bene le loro risorse» e «se non cambiano meritano di divenire solo un altro fallimento della finanza». Questo avviso di fine bolla si unisce al promemoria sulla guerra nucleare: «Sei anni fa Obama ha giustamente ammonito il mondo da ogni autocompiacimento sulle armi nucleari. La consapevolezza che un giorno, anche accidentalmente, una o più armi nucleari possono essere usate è motivo per lavorare duramente a evitarlo. La cosa migliore è cercare i modi per restaurare una effettiva deterrenza, impedire la proliferazione e tornare alla caparbia fatica di negoziati sul controllo degli armamenti tra le potenze nucleari più importanti» [The Economist, 07-13/03/2015, p. 10 e p. 20].

Alle donne trentine e a quelle che ridanno loro voce siamo perciò grati perché condividono con noi la coscienza dei rischi mortali del nazionalismo, grazie al teatro dove, al di là del dare e avere, in cambio della nostra partecipazione insieme acquisiamo una umanità che da soli non possiamo avere, né tanto meno comprare. Ed è sempre più preziosa.

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