La liturgia malata e il vano tentativo di rianimare il Messale del 1962


burke

 

Proprio in un tempo di così grave crisi sanitaria, dove la vita di moltissimi uomini e donne a Roma, in Italia, in Europa e nel mondo è messa radicalmente in discussione, non mi sarei mai aspettato di vedere ragguardevoli Congregazioni della Chiesa romana scivolare nelle trappole che il passato lancia sempre tra i piedi del presente. Quanto è facile, quando si è dentro una istituzione così antica, pensare che la tradizione sia un museo da conservare piuttosto che un giardino da coltivare. E anche quando nel giardino ci sono uomini e donne che soffrono, che cercano orientamento, che sospirano una parola di vita e di speranza, non è poi così difficile preoccuparsi del buono stato del museo, di lucidare le maniglie e gli specchi, di compiacere gli amici, di ripetere semplicemente la filastrocca del passato, a memoria e con un certo sovrano distacco.

Così, dopo aver visto la Congregazione del Culto risolvere con il Decreto Covid-19 le questioni riguardanti la Pasqua col piglio di un regolamento condominiale riservato a chierici, e dopo aver visto la Penitenzieria Apostolica scrivere ben due Documenti per trattare penitenza e indulgenze soltanto come questioni rilevanti ai sensi del Codice di Diritto Canonico, ieri siamo stati sorpresi dall’urgentissimo e attesissimo duplice Decreto con cui si integrano nuovi prefazi e nuove feste di Santi nel Messale Romano del 1962. Chi legge forse penserà che io stia scherzando. No. Prima la Commissione Ecclesia Dei, temporibus illis, e poi, nell’ultimo anno, una Sezione della Congregazione per la Dottrina della Fede hanno speso tempo, energie, soldi, hanno convocato “esperti”, fatto riunioni, sondato terreni, oliato ingranaggi, per poter arrivare a – udite udite! – modificare quel Messale che papa Giovanni XXIII aveva approvato nel 1962, come “strumento provvisorio” in attesa del Concilio e della Riforma Liturgica. Quel messale che quindi, a causa del fatto che, a partire dal 1969, abbiamo avuto un nuovo “Ordo Missae”, era ovviamente rimasto allo stadio di allora, senza alcun aggiornamento o modifica.

Come è stato possibile tutto questo? Come è stato possibile che una Congregazione, che non è competente in materia liturgica, potesse approvare la modifica di un “ordo” che è uscito dalla vigenza dal 1969 e che un Motu Proprio del 2007 pretende di aver “rimesso in vigore”?  Proviamo a ricostruire brevemente le tappe di questa storia:

a) Papa Giovanni XXIII, nel 1960, valutando il da farsi, aveva esitato: doveva dar corso alle riforme che Pio XII aveva già preparato, oppure doveva aspettare lo svolgersi del Concilio, che aveva già convocato? Decise di procedere alla revisione del Messale tridentino, in forma provvisoria. Il Concilio avrebbe fissato gli “altiora principia” sulla base dei quali si sarebbe fatta la riforma. E così nacque il testo provvisorio del 1962.

b) Il Concilio, esplicitamente,  ai numeri 47-58 di Sacrosanctum Concilium, fissa le linee fondamentali della riforma dell’Ordo Missae, che verrà realizzato e approvato nel 1969. E chiede, per questo, di modificare profondamente, di integrare largamente, di implementare e arricchire strutturalmente il rito del 1962.

c) Paolo VI, all’entrata in vigore nel Novus Ordo ribadisce quello che il suo predecessore e il Concilio avevano detto. Il nuovo testo sostituisce il precedente, a causa dei limiti rituali, teologici, pastorali e spirituali del testo precedente.

d) Nel 2007, con il Motu Proprio “Summorum Pontificum”, Benedetto XVI cerca di favorire la “riconciliazione” nella Chiesa e concede un più largo uso del “messale del 1962”, costruendo una ipotesi sistematicamente assai discutibile e argomentata con il sofisma della “co-vigenza” di un rito ordinario e di un rito straordinario. Come disse Camillo Ruini, alla uscita di SP: “speriamo che un gesto di riconciliazione non diventi un principio di divisione”.

e) In questi 13 anni la presenza del “rito straordinario”, con la sua equivoca ufficialità, ha dato forza a tutte le forme di chiesa “anticonciliare”. Non era certo nelle intenzioni di Benedetto XVI, ma lo è stato negli effetti. Questo rito “antico” ha coagulato intorno a sé volti della reazione ecclesiale e civile, passatisti di varia stoffa, aristocratici decaduti, snob rampanti e anche qualche soggetto poco equilibrato. Nel frattempo, la Commissione Ecclesia Dei conduceva trattative di accordo con i lefebvriani in cui non si capiva mai da quale parte del tavolo ci fossero i veri nemici del Concilio Vaticano II. Di amici, se ne vedevano sempre pochi.

f) Da ultimo, la Commissione, avendone combinate di troppo grosse, è stata soppressa. Ma, come si vede dai documenti presentati ieri, si è semplicemente trasferita all’interno della Congregazione per la Dottrina della Fede. I cui responsabili non possono cedere alla devianza e al parossismo. Anzi, può addirittura sembrare che ne abbiano sposato e firmato gli esiti più implausibili.

Poniamo ora la questione vera, che non è di carattere liturgico, o giuridico, ma sistematico. Sul piano della teologia sistematica tutta questa operazione è una mistificazione senza possibilità di scampo. Dire che sono vigenti contemporaneamente due riti, di cui il secondo è nato per correggere, emendare e rinnovare il primo, è un sofisma che fin dall’inizio ha alterato le competenze liturgiche nella Chiesa cattolica. Ma è un sofisma sistematico che non riesce a convincere e che soprattutto non funziona. Tanto che, dal 2007, non solo i Vescovi delle diocesi non possono sovrintendere alla liturgia nella loro diocesi, ma ora è chiaro che anche la Congregazione del Culto non può esercitare il discernimento in materia liturgica, perché una “liturgia straordinaria” viene controllata e modificata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Senza neppure informare il Dicastero competente per materia.

La teologia sistematica può far notare, inoltre, che un rito del 1962, che dal 1969 è “fuori uso”, se all’improvviso qualcuno vuole di nuovo utilizzarlo, si trova inevitabilmente ricacciato nel 1962. Questa cosa fu notata subito, pochi mesi dopo il luglio del 2007, quando si dovette affrontare una grave questione: il venerdì santo, quando si sarebbe pregato per i fratelli ebrei, coloro che si fossero avvalsi delle formule del 1962, come avrebbero potuto evitare di arrossire loro e far arrossire tutti quelli che li ascoltavano con le parole della formula di preghiera per i “perfidi giudei”? E gli azzeccagarbugli di allora, così simili a quelli di oggi, dissero: costruiamo una “nuova formula” che sia diversa da quella del 1962, ma diverse anche da quella del 1969.  Così nel 2008 si inventò una formula non così antigiudaica come quella del 1962, ma non così irenica, come quella del 1969. Fu come se nel 2008 si fingesse di essere nel 1966, un po’ dopo il 62 e un po’ prima del 69. E abbiamo creato così il primo “mostro”. Molti altri sono stati i “mostri” che in questi 13 anni abbiamo visto nascere. Come quando, tre anni dopo, la commissione Ecclesia Dei, sempre con il “placet” dell’allora Prefetto della Congregazione, stabilì questo principio, che sembra preso dritto dritto dalla “Fattoria degli Animali” di Orwell: “vi è gruppo valido per la richiesta del “rito straordinario” quando la richiesta è fatta da almeno tre persone, anche appartenenti a diocesi diverse”. Ma bene! Che meraviglioso giochino! In questo modo tre persone, di tre diocesi diverse, potevano e possono, nelle tre diverse diocesi, fondare tre gruppi di fedeli “VO”, ognuno avente come membri gli stessi tre soggetti. Un capolavoro di mistificazione, con puntuale benedizione romana. E così arriviamo a questi nostri giorni. E vediamo come la curia romana, in determinati e limitati suoi settori, favorisce apertamente se stessa, le proprie chiusure, le proprie fissazioni, arrivando a compiacere il desiderio di “aggiornare” il messale del 1962, pur di non aver nulla a che fare con il messale che lo aveva aggiornato fin dal 1969!  Quel Messale, che papa Giovanni voleva provvisorio, che il Concilio ha voluto superare e che Paolo VI ha di fatto superato, ora si decreta di rianimarlo, di truccarlo, di dargli un minimo di passabilità, di non farlo apparire così vecchio e così povero come irrimediabilmente esso è. Ma il Messale del 1962 non si rianima, non può essere rianimato. E’ morto.  Pensare di “rianimarlo” è il sofisma di Summorum Pontificum, che però è un documento piccolo piccolo, con una vocina esile esile, cos’ diversa dalla voce squillante del Concilio, della Riforma Liturgica e della esperienza del popolo di Dio di 50 anni, in 5 continenti diversi. La piccola provincia che si chiama Curia Romana può sempre scambiare le vocine stentate per il fragore di grandi acque, ma non può giocare con la tradizione né con il buon senso del popolo di Dio, solo per compiacere pochi reazionari con aderenze altolocate. Noi, invece, ci sentiamo proprio bene e diamo alle vocine il peso delle vocine, e al fragore delle cascate il dovuto rilievo.

Di fronte a questo spettacolo “pusilli animi”, di cui però i protagonisti non riescono a cogliere la meschinità, un’ultima cosa deve essere detta. In fondo questi azzeccagarbugli della liturgia hanno pure le loro ragioni. Perché in questi 13 anni hanno potuto fare molte cose indisturbati: quanti uomini di Chiesa, quanti pastori, quanti teologi, quanti responsabili della liturgia o dei seminari hanno avuto il coraggio e la onestà di parlare chiaro? Di denunciare i trucchi, i sofismi, gli effetti distorti di tutto questo meccanismo di nostalgia reazionaria? Perché non oggi, ma fin dall’inizio tutto era assolutamente chiaro. Fin dall’inizio c’era mistificazione sui dati, c’erano cardinali che parlavano della “grande riforma di Giovanni XXIII” e magnificavano le “orde di giovani” assetati di VO. Eppure quasi tutti sono rimasti zitti. Addirittura alcuni teologi, anche di fama, si sono piegati a lodare “Summorum Pontificum” come “lezione di stile cattolico”. Ma la maggior parte rimasero zitti e muti. Oggi vediamo bene che, se non diciamo la verità, se non lo facciamo anzitutto noi teologi, che siamo nella Chiesa proprio per questo, per dire la verità, gratuitamente, senza tornaconto, senza immediata responsabilità pastorale, ma solo per dire le cose come stanno – anche quando costa, forse soprattutto quando costa – se non lo facciamo noi, entriamo tutti in un circolo vizioso di distorsioni, di contorsioni e di mistificazioni tali, che nella Chiesa non si riesce più a distinguere ciò che è necessario, ciò che è possibile e ciò che è ridicolo. Tuttavia, poiché questi sono giorni in cui molta gente muore, e se non muore sta male, vive isolata, è preoccupata e talvolta persino disperata, vedere settori della Curia romana baloccarsi a far le riformine giocattolo dei riti tridentini, a calcolare le indulgenze sui trenta minuti (non 29) di Scrittura letta o ridurre la messa in coena domini a “ufficio ecclesiastico” per  singoli celibi, non solo è un fatto triste e imbarazzante, ma può assumere anche un profilo drammatico e un senso quasi tragico di insuperabile autoreferenzialità.

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