“Ultime conversazioni” di J. Ratzinger: dal “gusto della contraddizione” al “piacere dell’incontro”
Non vi è dubbio che, nel libro uscito il 9 settembre u.s., si possano identificare almeno due percorsi diversi. Da un lato una serie di “ritrattazioni”, con cui J. Ratzinger – il “terzo” Ratzinger – torna allo stile degli esordi della carriera teologica, prima che assumesse qualsiasi tipo di “ministero pastorale”: ha quindi pienamente ragione Massimo Faggioli nel concludere il suo commento al libro con queste giuste parole:
“Benedict does not speak at all of the Bishops’ Synods of 2014 and 2015 or the apostolic exhortation Amoris laetitia. Those who were hoping for an intervention by the former pope in the debate on family and the divorced and remarried will be disappointed. If you are one of those traditionalists considering the “schism option” (formally or silently), don’t look to this book for support from Benedict XVI. He now describes himself as a rebel who has always enjoyed contradicting (“die Lust am Widerspruch”), and now he has contradicted, and distanced himself from, some of those he appointed and promoted during his thirty-one years in Rome before becoming “emeritus.”
(https://www.commonwealmagazine.org/blog/benedict%E2%80%99s-%E2%80%98last-conversations%E2%80%99-reshaping-ratzinger-legacy)
E’ vero: J. Ratzinger nel libro ha preso le distanze da alcuni di coloro che negli ultimi trentun anni aveva appoggiato e promosso a Roma, prima di diventare “emerito”.
Ma, pur tenendo conto di questa condizione favorevole di “emerito” – liberato da ogni diretta responsabilità pastorale e pontificale – è possibile rilevare nel libro un altro versante di estremo interesse, utile a comprendere meglio le ragioni che lo hanno portato ad assumere posizioni in campo liturgico di cui la Chiesa continua obiettivamente a “soffrire”, proprio a causa della distanza tra le sue “intenzioni” – che qui troviamo apertamente riproposte – e gli effetti non voluti e non considerati. In effetti alle pp. 186-190 troviamo riproposte con sostanziale continuità rispetto al passato le “ragioni” che – ad avviso di J. Ratzinger – hanno giustificato il MP Summorum Pontificum del 2007. Vorrei presentare qui queste ragioni, con le parole con cui oggi vengono ripetute, insieme alle loro intrinseche debolezze:
a) “ciò che prima era sacro non può diventare da un momento all’altro sbagliato” (190)
Questo assunto, che è ben presente fin dall’origine come “motivazione-chiave” di Summorum Pontificum, appare di una disarmante debolezza. E’ stato “sacro” pregare per i “perfidi giudei”? è stato “sacro” che “solo il prete celebrasse”? è stato “sacro” ripetere ogni giorno feriale la medesima liturgia della parola? è stato sacro recitare il rosario durante la messa? E’ stato “sacro” spostare la comunione dopo la fine della messa? Mi chiedo: perché mai qualcuno dovrebbe avere oggi il diritto di “restare fermo” a questa forma del “sacro”? Qui il “piacere della contraddizione” si identifica con la “ostinazione nel medesimo”. Ostinazione obiettivamente cieca e viscerale, dal momento che può guardare ad ogni mutamento liturgico come ad una “catastrofe irreparabile”. Certo, Ratzinger non smentisce mai la Riforma, ma la comprende e la ammette solo in quanto resti “senza effetto”, salvaguardando la “sostanza” della liturgia.
b) “E’ importante che si cominci a vedere da dentro ciò che è la liturgia” (190)
Ecco un secondo aspetto da considerare. Per Ratzinger, anche da “emerito”, la liturgia deve essere colta rigorosamente “da dentro”. Ma qui si pone un secondo problema decisivo. La liturgia non è un concetto o una idea: è fatta in modo tale che “dentro” e “fuori” non si possono isolare. Solo se posso prescindere dall’esterno, se oso ridurre la liturgia solo ad punto interiore, posso illudermi che la “continuità” risulti indifferente alle mutazioni esterne. E posso allora sostenere la “irrilevanza” della riforma rispetto alla “sostanza” della liturgia. Solo a questo prezzo posso arrivare ad affermare – con grande gusto per la contraddizione – la identità del diverso. E a chiedere che “la identità interna dell’altro deve rimanere visibile” (189).
c) “Adesso non c’è un’altra messa. Sono due diverse forme dell’unico e medesimo rito” (189)
Ma non era stato proprio J. Ratzinger a dire, agli inizi degli anni 80, che la più grande idea elaborata dalla teologia liturgica nel XX secolo era stata proprio il cambiamento del concetto di forma? Se questo è vero, come è possibile che ci sia “una sola messa” in forme tanto diverse? Se la differenza di forme si comprende bene nel divenire della storia, come è possibile che possa essere contemporaneamente vigente l’una e l’altra e che ogni prete possa, nella sua singolarità, optare per l’una o per l’altra, in modo assolutamente arbitrario, almeno finché vive il rapporto singolare con la liturgia? In questo “diritto clericale” alla indifferenza per la forma si nasconde la contraddizione più rischiosa e anche la ostinazione più “seducente”.
d) “La vecchia liturgia del Venerdì Santo non è davvero accettabile. Mi meraviglio che non si sia fatto nulla prima per cambiarla” (186)
Il gusto per la contraddizione conduce anche ad una ricostruzione storica assolutamente paradossale. In effetti, leggendo il resoconto con cui J. Ratzinger presenta la vicenda della “preghiera per i giudei”, c’è da restare letteralmente senza parole. La distorsione dei fatti è davvero clamorosa. Non si dice nulla sul fatto centrale: ossia che è stato il MP Summorum Pontificum a rendere immediatamente utilizzabile, da tutti i preti, la vecchia formula della “oratio pro conversione judaeorum”. Nessuno lo aveva pensato prima! Nemmeno il papa di allora! Il quale dice di non avere “nulla” contro la nuova formula del 1970, ma confessa di essersi dedicato in prima persona a formularne una diversa, che non fosse più quella del 1962, ma che fosse anche diversa da quella del 1970! Nel 2008, quindi, si è dedicato tempo e ingegno per introdurre una formula “intermedia” tra quella del 62 e quella 70! E questo atto azzardato sarebbe stato criticato solo “per mala fede”, soltanto per “distruggere Benedetto XVI”? Il papa emerito, incurante di questi fatti che pesano come macigni, si attribuisce il merito di aver sostituito la vecchia formula “con una preghiera migliore per il gruppo ristretto di chi utilizza il messale antico”. In realtà, si può affermare esattamente il contrario: che con il MP del 2007 un certo numero di cattolici può ritenersi pienamente autorizzato ad astenersi dal pregare secondo la formula comune, rinunciando pericolosamente alla pienezza del rispetto e del riconoscimento tra “fratelli minori e maggiori”. La mancata considerazione di questa prospettiva è pastoralmente un piccolo grande dramma di insensibilità e di autoreferenzialità.
e) “In Germania alcune persone cercano da sempre di distruggermi” (187)
A onor del vero va aggiunto un aspetto curioso: tutto questo “dramma” sarebbe solo frutto di una “montatura dei teologi tedeschi che non mi sono amici”. E’ del tutto singolare che questa delicata vicenda, segnata da una lettura astorica e puramente interiore della tradizione liturgica – come se 50 anni dopo la riforma si potesse assicurare continuità con un semplice MP – possa essere ricostruita, nella sostanza, come una questione di “personale inimicizia”. La ammissione di “mancanza di relazioni” – che Benedetto confessa cavallerescamente all’inizio del volume – qui appare come uno scotto troppo alto che la tradizione liturgica ha dovuto pagare, e che continua a pagare anche oggi, senza che questi motivi abbiano più alcun fondamento istituzionale, data la condizione di emeritato.
In conclusione, all’interno di un testo che contiene anche affermazioni sorprendenti, dobbiamo riconoscere con onestà che il “tema liturgico” risulta pressoché immutato. E che su questo punto la “teoria” del prof. Ratzinger si è presto allontanata dalla realtà e continua a farlo, anche dopo la fine delle proprie responsabilità dirette. Tuttavia, la ripetizione di un argomento debole, anche dopo la fine del pontificato che lo ha espresso e utilizzato, non lo rende certo più forte. La operazione di “liberalizzazione” del “rito antico” non solo non è giustificata dalla “sostanza” della liturgia, o da una liturgia compresa “da dentro”, ma risente pesantemente di opzioni soggettive e di idiosincrasie personali, che hanno appesantito e complicato la gestione concreta della liturgia ecclesiale.
“Die Lust am Widerspruch”, la “voglia di contraddire”, ha avuto un prezzo troppo alto per la vita liturgica ecclesiale. A ciò occorre porre oggi rimedio senza indugio, perché il “piacere della contraddizione” ha generato, malgrado le migliori intenzioni, negli ultimi 30 anni, “la negazione del magistero”. E questo non è accaduto solo in ambito liturgico, ma anche nelle decisioni sul ministero maschile e femminile, sul modo di considerare e di attuare il Concilio Vaticano II e il suo significato, sulle priorità della identità ecclesiale, sul rapporto della Chiesa col mondo e sul dialogo ecumenico e interreligioso. Questa tensione irrisolta, questa fragilità di argomentazioni accanto ad una certa pre-potenza delle determinazioni, appare, nell’ultimo libro, disegnata con profilo chiarissimo, in un misto di disarmata arrendevolezza e di irriducibile e ostinata determinazione.
Quasi come la cifra di questo approccio irrisolto appare l’ultima parola che chiude questa parte del libro, quando, di fronte alle difficoltà di recezione del MP, J. Ratzinger ribadisce, con forza, la “impotenza papale”, negando per due volte che il papa possa realmente incidere sulla realtà liturgica: “Non è così”, “Certo, è impossibile” (190).
Forse l’irrigidimento maggiore, nella vicenda biografica di J. Ratzinger, è dovuto proprio a questa confessata “impotenza”. Il massimo della sua “potenza” – prima come Prefetto e poi come Papa – si è tradotta in una sostanziale impotenza del magistero. Il suo magistero è divenuto gradualmente ma irrevocabilmente contraddizione del magistero, quasi gusto e voglia di una assenza di magistero.
Forse in questo modo il “gusto della contraddizione” ha finito sostanzialmente col bloccare il magistero ecclesiale per 30 lunghi anni. La massima affermazione di potere è stata forse quella di “non avere potere”? O, meglio: nella negazione di ogni spazio di movimento per l’autorità della Chiesa ci si è ridotti sempre più ad una versione autoreferenziale della autorità. Che si affermava solo nella negazione di ogni possibile novità.
L’apparizione di Francesco, restituendo al magistero la sua autorità efficace – autorità di affermare piuttosto che di contraddire – ha iniziato a superare la contraddizione che paralizza, e ha riaperto la strada alla vita vissuta, alla uscita rischiosa e alla cura senza misura.
Forse questo è il motivo centrale e il punto decisivo di fronte al quale anche Benedetto – proprio lui e senza finzioni – ha potuto confessare così apertamente – e quasi spudoratamente – la sua ammirazione per un Francesco non solo come papa “attivo”, ma anche per il suo lato “riflessivo”, nel quale si può riconoscere che “la Chiesa è in movimento, è dinamica, aperta, con davanti a sé prospettive di nuovi sviluppi” (43). Un Francesco che fa prevalere sul negativo della contraddizione il positivo della azione e della affermazione: rispetto al “gusto di contraddire” – del quale evidentemente non manca nemmeno lui – dà il primato al “piacere di uscire” e al “desiderio di incontrare”.
Secondo me Faggioli non aveva capito Ratzinger insieme ai Miccoli ecc. ecc.
Ne ho lette così tante negli anni del suo pontificato che certi commenti di questi giorni (che riscoprono il Ratzinger anni ‘ 70 come se ci fosse in mezzo solo una lunga sospensione) lasciano molto il tempo che trovano.
Insomma meglio dire che non è mai scattato il feeling e non ci si è capiti che leggere certe “rivalutazioni” fuori tempo massimo.
Il paradosso e’ che considero Ratzinger molto più “moderno” nel suo nucleo teologico di Bergoglio. A volte penso che ci sia uno sfasamento di tifoserie che trovo un po’ surreale, forse lo spirito santo ha un certo senso dell’umorismo.
Buona giornata.
appare chiara una successione di tre espressioni sia pure senza rotture e nella continuità. A un primo Ratzingerdegli anni giovanili segue un secondo che arriva fino al 2013. Dopo si ritrovano elementi di 40 anni prima, che sembravano scomparsi, insieme a cose nuove e a riletture originali. Non bisogna perdere l unità, sia pure differenziata.
La passione per la contraddizione è elemento di questa unità.
[…] Pubblicato il 17 settembre 2016 nel blog: Come se non […]
https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2011/september/documents/hf_ben-xvi_spe_20110925_catholics-freiburg.html
Nel suo libro su Bergoglio anche Kasper ammette che la riforma “bergogliana” nasce qui, a me a piace dire che rispetto a questa Ratzinger è la mente e Bergoglio il braccio, il pontificato di Benedetto andrebbe letto anche secondo questa prospettiva e molte cose forse si chiarirebbero.
preferisco Miccoli e Faggioli come storici
il libro di Miccoli dopo il febbraio 2013 è diventato un pò carta straccia però, utile giusto per poter ricostruire certe critiche al pontificato raztingeriano.
Dal punto di vista storico è già stato superato dai fatti successivi, ed è quello che cercava di farle capire Fulvio De Giorgi.
La storia si fa dopo non prima, se uno prevede una restaurazione monarchica del papato e invece quel papa si dimette e apre una nuova stagione (già lo aveva detto in luce del mondo di essere l’ultimo del vecchio) dovrebbe ammettere di aver capito male.
Non è che R. ha cambiato idea nell’ultimo anno. Forse quella che per alcuni era una restaurazione è stata invece un raccogliere forze e bagaglio per fare il passo in avanti perché lo ha sempre detto che senza radici non si sviluppa nemmeno la chioma.
Io così l’ho intesa anche prima del 2013
con De Giorgi non siamo affatto d accordo. una lettura solo continuista è senza fondamento in re. Anche il discorso di ieri ai nuovi vescovi è acqua fresca che non si sentiva scorrere da 50 anni. Lei come molti altri si è abituata a partite difensive e piene di diffidenza. se dopo 30 anni di catenaccio inizia a giocare l olanda…qualcuno pensa che non sia regolare o che non sia più calcio…
difensive perché? matrimonio a parte (l’indissolubilità nel vangelo appartiene alle beatitudini non è questione marginale) non ho particolari motivi per non volere cambiamenti basta non sia un semplice rincorrere gli altri tanto per…
Però a Ratzinger sono affezionata, saranno i libri, la timidezza, la passione per la filosofia lo sentivo vicino, eppure per 8 anni si è sentito di tutto nemmeno fosse Torquemada redivivo. Surreale dai e non servono riposizionamenti tardivi alla Faggioli, se non avevi capito prima…
p.s. Alla fine del libro ci sono un paio di pagine che potrebbero rientrare nel discorso spazio-tempo di qualche settimana fa.
tradurre le beatitudini con la pretesa che siano legge oggettiva è il peggior catenaccio che si possa immaginare. Al quale per 40 anni si è prestato anche chi oggi prende le cose con …filosofia. Lei, gentile Sara, dovrebbe leggere tutto, non solo le ultime due pagine del libro. Che peraltro non sono per nulla sorprendenti. Se non vede la ostinazione difensiva degli ultimi 30 anni vuol dire proprio che non ha mai visto quella che si chiama una bella partita.
Ho letto tutto il libro, e non credo affatto che le beatitudini debbano essere tradotte in norma oggettiva, ma nemmeno essere considerate un retaggio del passato o un qualche ideale lontano e irrealizzabile.
Voglio dire un conto è parlare dei bottoni della talare un conto delle beatitudini no?
Hanno appena pubblicato un libro di Martini sui vangeli la parte dedicata a Matteo ne parla diffusamente.
Leggo come sempre con interesse i tuoi articoli. Devo dire che la prima critica al argomento di Ratzinger-Benedetto XVI sul carattere sacro della liturgia precedente al Concilio Vaticano II non lo capisco. Meglio se quella liturgia non era sacra, non era vera liturgia, perché quella de dopo il concilio possiamo dire che sì lo è? Quella liturgia di prima del Concilio Vaticano II metteva in contatto con Dio o no? Se lo faceva non si capisce come poteva essere proibita, se non lo era, come lo Spirito Santo ha permesso che la Chiesa celebrasse quella liturgia al meno per 500 anni?
Devo dire anche che forse è il tuo talante provocatorio ma tutte le critiche al carattere sacro della liturgia precedente al Concilio non sono liturgici ma sociologici e di questi se ne potrebbero dire tanti sulla liturgia postconciliare. Penso che se non confrontiamo sul serio, con i testi in mano, con i gesti in mano la liturgia pre e post conciliare non si può veramente dialogare. Su slogan e luoghi comuni non si dialoga, non si può dialogare sul serio. E il nostro penso che vuole essere un dialogo liturgico…
Penso che la liturgia va vissuta dall’interno. Bisogna entrare nella liturgia con umiltà, come direbbe Guardini, perché la liturgia è un dono che si riceve no un qualcosa che si fa. Dire che le forme esterne che traducono la forma interna fondamentale non possono essere diverse è fare impossibile il discorso sulle famiglie liturgiche, sui riti, sugli usi liturgici…
Quale è la forma della Messa secondo il Ratzinger degli anni 80? Basta leggere “forma e contenuto dell’Eucaristia” nella Festa della fede per vedere che la forma dell’Eucaristia è una preghiera memoriale di ringraziamento. Se questo non si può far visibile di modi diversi non capisco come è possibile la ricchezza dei riti…
Non capisco come si può lodare continuamente la creatività, la libertà creativa e discutere che si possa creare una preghiera nuova per il Venerdì Santo.
No vorrei allungarmi di più… Abbiamo abbastanza per continuare il dialogo.
Caro Juan,
le tue perplessità sono utili per chiarire meglio le idee. Ma il carattere “sacro” di un rito – che nessuno nega – dipende anche dalla sua esteriorità. Questo è il punto che J. Ratzinger non affronta mai. Per “sacro” intende intoccabile. Ma questo non si dà mai nella storia. Di volta in volta si è modificato il rito romano, senza che la forma vecchia sopravvivesse alla nuova, se non per qualche passaggio generazionale, che è sempre inevitabile. D’altra parte esercitare la creatività solo per negare lo sviluppo – come è successo per la oratio pro judaeis è una cosa più ridicola che giustificata. E’ mettere la testa sotto la sabbia, come gli struzzi, e negare la evidenza che una nuova comprensione del rapporto tra cristiani e ebrei esige un mutamento della “esteriorità espressiva”, oltre che della interiorità. Su tutto questo anche l’ultimo libro non chiarisce questioni di fondo, che restano irrisolte nel pensiero e nella prassi sia di J. Ratzinger, sia di Benedetto XVI. Proprio l’articolo al quale fai riferimento è quello in cui si riconosce nel concetto di “forma” la grande novità del XX secolo portata dalla teologia liturgica. Ma poi non se ne traggono le conseguenze dovute. E in questa incoerenza si colloca anche la decisione del MP Summorum Pontificum. Ma già prima la teoria della “fedeltà” affidata alla sola traduzione letterale, come compare in “Liturgiam authenticam”.
Un caro saluto
da
Andrea
Scusi ma come fa a dire sacro=intoccabile quando ammette chiaramente di aver desiderato un sincero rinnovamento soprattutto a partire dalla liturgia?
Al massimo chiarisce ancora una volta che il rinnovamento non deve snaturare ciò che si vuole rinnovare. (La solita riforma nella continuità e non nella rottura)
Anche quando parla di Pieper o di Jedin ribadisce bene che non si trattava affatto di un circoletto di conservatori, mostra deciso apprezzamento anche per Metz mentre il contrasto più evidente e’ con Kung. (Al massimo e’ nel contrasto tra i due che si vede il punto di rottura).
Si chieda perché Metz si e Kung no? (nonostante non mostri alcun astio nei suoi confronti in nome della vecchia amicizia)
Addirittura racconta di aver letto molto Sartre la cui capacità di essere realista era, a suo dire, dovuta all’abitudine di scrivere nei caffè.
Com’è possibile mettere insieme Sartre che scrive nei caffè con sacro = immutabile?
Caro Andrea,
Mi pare che per Ratzinger-Benedetto XVI la sostanza della liturgia, proprio perché è la fede, il mistero celebrato, è intocabile perché non è nostra, non è la nostra disposizione. La liturgia è in primo luogo di Dio. È Lui che prende l’inniziativa e permette che noi partecipiamo all’opera divina. E Cristo che associa la Chiesa secondo il Concilio Vaticano II e non a la rovescia. La fede, la liturgia, la vita vanno insieme. Il mistero si crede, si celebra e si vive e non è a la nostra disposizione. È unico e universale perché è il mistero di Dio benché, proprio per l’incarnazione, perché si è unito a ogni uomo si può conjugare nel suo esterno di modi diversi senza cambiare l’interiorità.
Anche mi pare onesto dire che se non ci sporchiamo le mani parlando del rito stesso è difficile poter dialogare. Bisogna prendere sul serio le parole e i riti del Messale romano di 1962 e di 1970 e provare a dialogare. Il Messale del 62 non è il rosario nella Messa, la comunione fuori la celebrazione, la lettura ogni giorni la stessa… Basta leggere il Messale per vedere che non è così. Come il Messale del 1970 non sono le celebrazioni senza sacralità, senza silenzio, senza adorazione de senso del mistero di Dio. Ripeto bisogna sporcarsi le mani e non parlare di sociologia della liturgia ma di liturgia propria e vera.
Sei sicuro che per Ratzinger salvaguardare la sostanza della liturgia è lasciare senza effetto la riforma? Non ricordo bene l’ultima volta che Benedetto XVI ha celebrato con il Messale del 62? E continuare a sottolineare l’immensa diversità tra le due forme di celebrare la Messa non è andare contro lo stesso OGMR che nel numero 6 dice: “è facile rilevare come i due Messali romani, benché separati da quattro secoli, conservino una medesima e identica tradizione”.
D’altra parte mi pare che Ratzinger-Benedetto XVI incoraggia a vedere la liturgia dal di dentro, senza dimenticare l’esterno come fa nel suo libro lo Spirito della liturgia e in tante omelie mistagogiche come santo Padre, perché il dentro va prima del fuori. Ma in questo non fa altro che leggere Sacrosanctum Concilium 2 e 11.
Per quanto riguarda il concetto forma dell’Eucaristia, a cosa si riferisce Ratzinger nel suo libro La festa della fede? quale è la forma che caraterizza l’Eucaristia secondo lui? Mi pare che la forma che qui legge attentamente il libro si rende conto che definisce l’Eucaristia, la sua forma esteriore e interiore, come forma di orazione. L’Eucaristia è fondamentalmente preghiera, dialogo. Preghiera che la Chiesa unita a Cristo rivolge al Padre per lo Spirito Santo. E questa forma di preghiera, questo dialogo che rende gloria al Padre e santifica gli uomini è possibile con la forma ordinaria, con la forma straordinaria, con il Messale romano per le diocesi dello Zaire, con il Messale bracarese… tutte forma dell’unico Rito romano.
Penso anche che tutti sono d’accordo per quanto riguarda i grandi passi che si sono dati nel processo ecumenico dopo il 1970. Non vedo perché non si può comporre nel 2008 una preghiera che raccolga tanti passi in avanti dati in questo processo per sostituire una preghiera del 1962 che non rispondeva bene a questi approfondimenti nel dialogo con i fratelli maggiori. Mi pare che definire la preghiera del 2008 come drama, come rinuncia alla pienezza del rispetto e del riconoscimento tra “fratelli minori e maggiori”, senza fare un commento teologico alla preghiera stessa, è non prendere il dialogo teologico liturgico sul serio e muoversi un’altra volta con luoghi comuni, slogan e frase per attirare l’attenzione.
Grazie mille per tutto il tuo lavoro che aiuta tanto a studiare, leggere e approfondire nel nostro amore alla liturgia, vera preghiera di Cristo e la Chiesa.
Caro Juan,
credo che sia molto opportuno questo dialogo, perché può chiarire bene le questioni e creare le premesse di una intesa più ampia e più vera.
In primo luogo voglio riprendere quanto dicevi sulla concezione della liturgia come “sostanza”, che deve essere colta “da dentro”. Qui le parole di Benedetto XVI – e di Ratzinger teologo e prefetto – riprendono una tradizione molto antica, ma che è stata profondamente ripensata dal Movimento Liturgico. E si crea questo paradosso: propro Ratzinger, che ha colto così bene il senso della novità di una teologia liturgica, che scopre un nuovo senso della “forma” per capire i sacramenti e la liturgia, poi non tiene per nulla conto di ciò e può addirittura pensare che la “forma rituale” possa essere irrilevante per “fare esperienza” della messa. Questo è molto grave ed è il presupposto del MP Summorum Pontificum, che rimette in vigore ciò che la Riforma aveva inevitabilmente superato. Qui non c’è alcuna via di scampo: se si rimette in vigore la “forma antica” del rito romano – sia pure a certe condizioni – si lascia intendere che la Riforma non avesse una sua specifica urgenza. E lo dimostra anche la tua risposta: certo che il Messale di Pio V, anche nella sua versione ultima, quella del 62, non è solo “rosario parallelo”, ma quel modo di concepire la “sostanza” della liturgia rende possibile/doveroso che mentre il prete “dice messa” gli altri si dedichino ad “altre” devozioni. Questo è ancora teorizzato esplicitamente da Mediator Dei. E chi, nel 2007, rimette in vigore quei riti, sa di dare un aiuto fortissimo a questa “pietà non liturgica”.
Quanto alla questione della “oratio pro judaeis” mi stupisco del fatto che tu non ti stupisca. Che nel 2008 si perda tempo a modificare una preghiera del 62, che già era stata modificata con succcesso nel 1969, solo per “restare indietro” rispetto ai progressi del dialogo interreligioso, questo a me pare una cosa tanto drammatica quanto comica. I luoghi comuni e le frasi vuote sono quelle con cui Ratzinger pretende di raccontare questa storia, non le guste denunce di teologi non solo tedeschi. Ripeto, il segno di una autoreferenzialità e di una mancanza di senso della storia con aspetti paradossali.
D’altra parte, a me pare molto giusto vedere, in tutto questo, il segno di un “irrigidimento” che è sempre piuttosto rischioso e che riguarda, come ricordavo già nel post, non solo la liturgia, ma molti altri campi della esperienza ecclesiale. Mi sento di condividere di cuore ciò che papa Francesco ha detto ai nuovi vescovi, parlando del modo di formare e di seguire i seminaristi: attenzione agli atteggiamenti rigidi, che sono sempre il segno di qualcosa di brutto. Tutta la vicenda che dal 2007 arriva fino a noi, e di cui Benedetto XVI è stato un fautore convinto, come conferma anche nell’ultimo libro, è un brutto segno, che dobbiamo superare con chiarezza e determinazione. Restituendo ai Vescovi la loro “autorità liturgica” e ridimensionando le competenze della Commissione “Ecclesia Dei”. Solo così il dialogo potrà davvero occuparsi delle questioni serie, e non tutelare indebitamente tutte le forme di irrigidimento e di fondamentalismo liturgico ecclesiale.
Un cordiale saluto
da
Andrea
“Mi sento di condividere di cuore ciò che papa Francesco ha detto ai nuovi vescovi, parlando del modo di formare e di seguire i seminaristi: attenzione agli atteggiamenti rigidi, che sono sempre il segno di qualcosa di brutto. ”
Ha detto anche che il mondo è stanco di preti e vescovi alla moda:
“Servono dunque persone che sappiano far emergere dagli “sgrammaticati cuori odierni” la volontà ad ascoltare il Signore, favorendo “il silenzio” che rende ciò possibile. ”
Volendo….