Munera 3/2018 – Maria Antonietta Crippa >> Architetture per la morte, testamenti per la vita

«Quando l’agnello aprì il settimo sigillo, nel cielo si fece un silenzio di circa mezzora, e vidi i sette angeli che stavano dinanzi a Dio e furono loro date sette trombe» (Apocalisse 8,1-2): con questo celebre passaggio tratto dal libro dell’Apocalisse si apre Il settimo sigillo, un film dello svedese Ingmar Bergman (1918-2007) uscito nel 1957. La mezzora di silenzio qui citata, quasi una sospensione dell’inesorabile scorrere del tempo verso la morte, è per Bergman possibilità d’indagine: «Io voglio sapere. Non credere. Non supporre. Voglio sapere», dichiara alla Morte il Cavaliere protagonista del racconto che ci porta nel XIV secolo occidentale, tormentato dalla peste e dai fallimenti in Terra Santa, e che lascia fuori campo il senso cristiano della storia, il cui centro definitivo, nella morte e resurrezione di Gesù Cristo, viene rivelato dall’apertura del settimo sigillo.

Nella realtà, fuori dall’immaginario filmico, la morte incombe senza dilazioni possibili sulla storia di ognuno e di tutti, provocando una dolorosa ma inevitabile resa dei conti in chi ne è investito e, almeno in parte, anche in chi ne condivide l’accadere in altri. Essa incombe anche sui contesti abitati, occupando spazi con tumuli, cappelle, cimiteri. Comporta lasciti, eredità di beni o anche di situazioni irrisolte, nei testamenti che sanciscono continuità tra generazioni. La morte, si può dire, è da sempre presente tra i vivi in vari modi, con luoghi, riti, parole, corpi. In architettura, nel disegno dei luoghi abitati, essa ha allo stesso tempo rilevanza civile e religiosa, implica inoltre il contributo di diverse forme d’arte che stimolano l’immaginario collettivo.

Si deve ammettere che non si può concepire una città dei vivi senza rispondere, in essa, non solo alla necessità di dar sepoltura ai morti, nel cordoglio, ma anche all’esigenza degli uni di vivere una dinamica continuità di memoria con gli altri, come fondamento di reciproca appartenenza. La comprensione della morte entro l’orizzonte della vita o, specularmente, di una vita che accoglie e rende fruttuoso il dramma della morte, non è infatti problema solo individuale e intimo, di coscienza, è anche questione di civiltà.

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