Parlare di liturgia ha senso? La via mistagogica secondo Pierangelo Sequeri


In un volumetto scritto a quattro mani, (R. De Zan – P. Sequeri, Celebrare. Bibbia e liturgia in dialogo, Roma, GBP, 2022) mentre R. De Zan presenta il culto nel AT e NT, P. Sequeri dedica circa 70 pagine al tema così formulato: Ha ancora senso oggi parlare di liturgia? Riabilitazione dell’asse mistagogico della celebrazione ecclesiale (71-153). Vorrei soffermarmi brevemente sul testo di Sequeri.

Alcune affermazioni azzardate

Tutto il testo è pervaso da una tesi che viene formulata fin dall’inizio in modo piuttosto drastico. Eccone la prima formulazione.

“Da quando i teologi hanno ripreso a parlare di liturgia, e i liturgisti di teologia, la pratica della liturgia ha dolcemente incominciato a perdere la sua potenza e il suo incanto. Il tempo del cosiddetto rubricismo liturgico aveva un incanto infinitamente superiore a quello prodotto dallo strutturalismo semiologico che l’ha sostituito” (73)

La frase lascia intendere, forse anche al di là delle intenzioni di chi l’ha scritta, che la perdita di potenza e di incanto sia uno dei prodotti della “verbalizzazione” della liturgia.

Di fronte a questa diagnosi troppo semplicistica l’auspicio (giusto) è “che la liturgia riprenda a parlare da sé (e non di sé)” (74).

Pur riconoscendo (75-76) il grande progresso fatto dalla teologia sia riguardo al rapporto tra sacramento e celebrazione, sia riguardo alla ricomposizione antropologica dell’azione rituale, questo arricchimento non ha inciso sulla esperienza: “nei toni e nei ritmi che erano abituali nella mia infanzia preconciliare” (76).

Di qui una seconda affermazione molto azzardata:

“L’arricchimento del senso teologico del sacramento, nella lingua ecclesiastica, ha moltiplicato i misteri senza necessità” (79)

Al contrario, centrale dovrebbe restare quella “comunità dell’altare” che è luogo in cui la Chiesa si “ferma” e si “fa”.

Una lunga e appassionata illustrazione di questa qualità “inoperosa” della comunità eucaristica (80-103) arriva però ad una terza affermazione estremizzata:

“La Chiesa post-tridentina, che si vuole blindata dogmaticamente, ha riempito l’Europa di meraviglie (architettoniche, pittoriche, musicali, poetiche), che ancora adesso vengono esibite come l’argenteria di famiglia che nobilita una pratica non più frequentata con altrettanto entusiasmo. La Chiesa del dialogo con la cultura e l’arte continua ad essere mortificata da risultati più che modesti.”(104-105)

Sequeri denuncia le “patetiche forme di nostalgia devota” e di “apologetica anacronistica” (105), ma alcune volte ne adotta anche il linguaggio. Più serene e piene di intensità positiva sono le pagine della seconda parte (108-144) che esordiscono con una rilettura illuminante del pensiero di Ugo di S. Vittore sulla differenza tra immagine e sacramento e che permettono a Sequeri di costruire un interessante e originale percorso di riavvicinamento tra sacramento e celebrazione.

Il testo si chiude con un capitolo dal titolo forte: “L’invenzione di una nuova cultura del culto” che mira a mettere insieme il “minimalismo del sacramento e la esuberanza dell’arte” (149).

Questo progetto, come sarebbe evidente se lo si volesse vedere, corrisponde in modo forte con le migliori voci che hanno accompagnato da almeno un secolo le “parole sulla liturgia”. Proprio di questo filone di riflessione, così importante e per certi versi decisivo, non vi è traccia alcuna nel grande testo di Sequeri. Cerco di chiarire meglio questa grave perplessità.

Le parole sulla liturgia e la parola della liturgia

La prima osservazione che scaturisce dalla lettura del testo deriva da una carenza che già avevo notato in altri testi liturgici di Sequeri: manca completamente un confronto con quella storia di “verbalizzazione” della liturgia che inizia prima della metà del XIX secolo e che poi prende le forme di atti magisteriali e conciliari e si traduce in una grande riforma liturgica. Di tutto questo, nel testo di Sequeri, non vi è traccia alcuna. Questo porta ad alcune esagerazioni piuttosto rilevanti:

a) Da un lato sembra che il “sacramento”, e la “liturgia” siano un “ente di ragione” (o di fede) che non dipende da condizioni storiche, culturali, ecclesiali, ma che si genera da sé, sempre uguale a se stesso e di fronte al quale si può “parlare a sproposito” o “lasciargli la parola”. Sono state le “parole sulla liturgia” a permettere, in un percorso di due secoli, di elaborare una esperienza della “forma rituale” che ha chiesto una “riforma complessiva” del culto cristiano. Per fare una riforma non si può semplicemente “lasciare la parola al rito”, ma bisogna “ristrutturarne la logica”. Quella scoperta della “partecipazione attiva” non è una”enfasi post-conciliare”, ma il frutto di una rielaborazione teorica finissima, che non si può far passare per un abbaglio. Purché si voglia ancora riconoscere che la “messa tridentina” ha avuto bisogno di una profonda riforma per diventare (anche ritualmente e non solo teologicamente) “comunità eucaristica” e non soltanto “sacramento dell’altare”.

b) Una certa indifferenza verso le forme rituali, che non acquisiscono mai lo spessore concreto di un “ordo” (storicamente differenziato), rende difficile per Sequeri distinguere la reazione nostalgica dall’analisi storica. Provo a identificare due punti fragili di questa sua analisi. Da un lato, come sempre ho notato nei testi di autori più o meno tradizionalisti, è facile invertire la correlazione tra causa ed effetto, nei discorsi sulla liturgia. Posso perdonare a Messori di dire che i problemi della liturgia iniziano con la Riforma del Vaticano II, ma più difficile è accettarlo da un teologo come Sequeri. La presa di parola sulla liturgia, che ufficialmente inizia almeno più di un secolo fa, è giustificata precisamente da ciò che per Sequeri sarebbe l’effetto! Una crisi liturgica appare già nel XIX secolo e suscita in Rosmini, Guéranger, Guardini, Casel, e poi in Vagaggini, in Chauvet, in Lafont, in Bonaccorso, risposte preoccupate di “restituire la parola ai riti”. Mi chiedo: perché mai Sequeri non ha riconosciuto in questi autori la medesima intenzione, che ha cercato di formulare, 100, 50 o 20 anni dopo di loro, senza fare il minimo riferimento ad essi? D’altra parte, proprio qui si nasconde anche la seconda svista: la produzione di arte da parte della Chiesa posttridentina e la afasia dell’ultimo secolo non sono semplicemente il frutto di una “verbalizzazione liturgica”, ma di un passaggio di paradigmi culturali che meritano una analisi meno drastica e meno polarizzata.

c) In terzo luogo, sono molto colpito da un fatto: la teologia dei liturgisti (di tutti i continenti), da almeno 30 anni, ha compreso che il recupero della “mistagogia”, ossia la restituzione della autorità alla azione rituale, è la grande sfida anche per la Riforma Liturgica. D’altra parte, il succedersi delle generazioni di coloro che “parlano di liturgia” ha scandito anche il passaggio di compiti diversi. Abbiamo avuto bisogno, tra gli anni 40 e gli anni 80, di studiosi che ricostruissero la logica di tutti i riti cristiani. Senza questo lavoro non si sarebbe prodotta alcuna Riforma della liturgia. Questo Sequeri lo sa bene. La serietà del lavoro compiuto non impedisce, oggi, agli stessi liturgisti, di aver individuato, da tempo, un compito diverso, che si può chiamare appunto “mistagogico” e che consiste nel liberare i riti da “funzioni”, restituendo loro il carattere di “fonte”. E’ vero che il lavoro pastorale è ancora in difficoltà su questo punto, ma è anche vero che, almeno sul piano teorico, le proposte di qualità non mancano e non possono essere ridotte al nulla, con un gesto troppo sbrigativo.

Mistagogia di quale liturgia?

Un ultimo punto deve essere annotato. Al di là di alcune affermazioni avventate e di una forte assenza di dinamica storica, molte delle cose che Sequeri scrive sull’ ”asse mistagogico” sono del tutto fondate. Ma pagano cara una certa “indistinzione” di concetti, che si riferiscono a Battesimo, a Eucaristia o ad altare in un linguaggio atemporale. La domanda è questa: l’asse mistagogico da recuperare e del quale abbiamo davvero urgente bisogno, su quale liturgia deve operare, a quale liturgia deve lasciare la parola? A questa domanda il testo di Sequeri non dà risposta alcuna e lascia intendere, in modo indiretto, quasi la irrilevanza della questione. Per rispondere a questa domanda occorre mettere a tema la liturgia come “oggetto di parola”.

Poiché negli ultimi anni Sequeri aveva avuto modo di apprezzare il “parallelismo rituale” tra Vetus Ordo e Novus Ordo come “una lezione di stile cattolico” prodotta da papa Benedetto XVI, ma poi ha anche molto lodato il superamento del parallelismo rituale, recentemente realizzato da papa Francesco, sarei curioso di chiedergli se il suo “asse mistagogico” può confidare a tal punto nella “parola della liturgia” da rendere indifferente quale sia la liturgia che deve o può prendere la parola. Per questo, nell’apprezzamento per molte delle speranze che Sequeri delinea sul piano di una lettura misterica, mistagogica ed estetica del culto, mi sembra che per restare in equilibrio nella grande tradizione cattolica, siamo costretti ad un lavoro fine, in cui lo scopo condiviso di “restituire la parola alla liturgia” passa sempre e inevitabilmente attraverso una “accurata parola sulla liturgia” in cui le coordinate storiche, teologiche, antropologiche ed ecclesiali di una visione del culto non devono mai rischiare di essere catturate, una volta per tutte, in quella rete di affezioni e di attaccamenti che non sempre risultano guide affidabili.

 

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