Lo sguardo sulla “comunione eucaristica”: un cambio di paradigma


papalunddonna

Lo sguardo sulle questioni che riguardano la “comunione eucaristica” è maturato nei secoli secondo modelli teorici e pratici assai differenziati. Anche il nostro sapere eucaristico, la prassi rituale che lo sostanzia o la preghiera con cui ci riferiamo alla eucaristia, sono segnati da questi modelli e risentono del loro modo di guardare, di pensare e di pregare il mistero eucaristico. Senza spirito polemico, ma con il discernimento necessario ad una sfida tanto importante, dobbiamo riconoscere che le nuove questioni, sollevate da “forme di vita” inedite, ci costringono a pensare, a meditare e anche a pregare nella eucaristia in modo nuovo.

Ciò che è accaduto, nella prospettiva di una valutazione della risposta della Congregazione per la Dottrina della fede alla elaborazione tedesca di una possibile “comunione eucaristica” interconfessionale, merita un giudizio che vada al di là delle singole questioni, pure rilevanti, e che tocchi, in modo significativo un intero “paradigma” di lettura e di giudizio sulla tradizione. Questo paradigma, che nella risposta della Congregazione appare con molta chiarezza, può essere definito “dogmatico-disciplinare” e si preoccupa, essenzialmente, di una questione molto seria: ossia della “autorità”. Ciò che questo paradigma fatica ad elaborare è proprio il “mutamento epocale” all’interno del quale la chiesa, anche la chiesa cattolica, che ha dovuto fare i conti con le forme di vita inaugurate dall’epoca tardo-moderna, ossia a partire dal XIX secolo. Ci sono nuovo “autorità” di cui tener conto e che sfuggono allo sguardo classico.

Tale novità si presenta, in modo evidente, nel documento “Insieme alla tavola del Signore”, che è stato elaborato da una Commissione mista cattolico-luterana e che lavora certo in una prospettiva fondamentale, ma il cui intento viene bene fotografato da questa chiara e lineare conclusione, che voglio qui riportare per intero:

” Il Gruppo di lavoro ecumenico di teologi evangelici e cattolici considera teologicamente fondata la pratica della partecipazione reciproca alla celebrazione della Cena/Eucaristia nel rispetto delle tradizioni liturgiche altrui. Essa è pastoralmente opportuna specialmente nella situazione di famiglie di confessione mista. Sia in vista del caso singolo sia anche come normativa generale, nessuno può accontentarsi delle soluzioni finora esistenti. Questo parere implica il riconoscimento delle rispettive forme liturgiche, nonché dei servizi di presidenza, così come dati dalla comunità che celebra e invita alla celebrazione, in nome di Gesù Cristo, battezzati di altre confessioni. Non si auspica una nuova forma concordata di liturgia eucaristica al di là delle tradizioni cresciute nel corso della storia. Nella prassi da noi proposta si presuppone il riconoscimento del battesimo come vincolo sacramentale della fede e come presupposto nella partecipazione”. 

Ho voluto riprendere integralmente questo brano perché fotografa in modo plastico il “cambio di paradigma”.  Lo “sguardo” sulla questione fondamentale della comunione eucaristica muove qui dalla “periferia”, che però diventa centro. La periferia, che è il nuovo centro, sono le “famiglie confessionalmente miste”. Proprio quello che per la Congregazione resta irrimediabilmente “periferico”, per il documento tedesco ha assunto una nuova centralità. Ossia le “forme di vita di comunione”, che coinvolgono insieme un/a cattolico/a e un/a luterano/a sono “luogo di giudizio e di crisi” delle Chiese di appartenenza. Chi ha esperimentato una “comunione familiare”, che edifica case, genera figli, forma le coscienze, costruisce relazioni, annunciando in questo modo la Buona Novella, e però nel frattempo è costretto a celebrare la comunione eucaristica “nella divisione ecclesiale”, comprende che la famiglia è diventata profezia per le Chiese. Le famiglie sono avanti e le Chiese, anche le Congregazioni, arrancano dietro.

Bisogna aggiungere che la questione ha assunto, anche per i cattolici, una sua rilevanza solo da quando sono mutate due condizioni ecclesiali e sociali del tutto decisive:

– i matrimoni misti, almeno in alcune regioni, si sono grandemente intensificati (a partire dalla autodeterminazione di uomini e donne). Nella società tradizionale, i gruppi ecclesiali tendevano a chiudersi su di sé.

– la comunione è diventata “frequente”, ma solo dopo PIO X. In un mondo cattolico in cui la comunione delle famiglia si fa solo a Pasqua, nessuno scriverebbe documenti come quello esaminato!

Il “paradigma classico”, che la Congregazione sembra mantenere come “unico possibile” è segnato da alcuni limiti che vorrei definire “esistenziali” e che sono il frutto di scelte che stanno a monte rispetto ai problemi. Il giudizio della Congregazione, infatti, si limita a considerare le evidenze “dogmatico-disciplinari”, che tuttavia la vita sa e può trasformare. Ma la vita può trasformare queste evidenze solo quando i soggetti implicati si lasciano “toccare dalla vita”. Una Congregazione, che lavora con standard e strutture cinquecentesche, composta esclusivamente da presbiteri o vescovi privi di famiglia, cioè senza moglie e senza figli, non riesce ad uscire dal paradigma classico, non riesce a percepire la centralità della periferia e ad assumere lo sguardo nuovo, che è necessario per intercettare questa nuova realtà. Perciò, come è evidente, al tema della “comunione eucaristica” si lega, con un nodo inestricabile, il tema di una visione aperta e dinamica della ministerialità ecclesiale. Uomini sposati ecclesialmente autorevoli e donne ecclesialmente autorevoli sono oggi “condizione di possibilità” non tanto per dare soluzioni adeguate alle questioni, ma per capire e intendere i problemi e le loro priorità. Una preoccupazione solo dogmatico-disciplinare, sulla cui consistenza non c’è ragione di dubitare, può diventare una visione troppo unilaterale, se non è accompagnata dalla consapevolezza dei mutamenti antropologici, sociali, affettivi  e ministeriali che hanno cambiato il mondo e già anche la chiesa. La autodeterminazione del soggetto (maschile e femminile) in ambito matrimoniale e in ambito eucaristico  appare allora come una delle cause di quel problema che oggi diventa opportunità e profezia ecclesiale, purché non sia affrontato in modo riduttivo e con un paradigma troppo datato. E sarebbe tutto molto più semplice se i cattolici si sposassero solo con i cattolici e se la comunione si facesse solo a Pasqua. Ma il mondo da più di un secolo non è più così, senza colpa di nessuno!

Un bravo teologo non cattolico, Fulvio Ferrario, ha scritto sul tema un post molto lucido, con in quale in larga parte mi trovo d’accordo. Ma su una cosa dissento: egli ha scritto che i teologi cattolici “devono mettersi il cuore in pace”, perché la Chiesa cattolica non può accettare la comunione eucaristica con confessioni diverse. Io credo che, proprio in quanto teologo cattolico non posso che coltivare quella “inquietudine” senza la quale non potrei più guardare serenamente il mio volto allo specchio ogni mattina. La comune fede nel Signore Gesù, sia pure nella diversità delle tradizioni, anzi onorando proprio queste diversità, non può impedire che, in determinate circostanze, senza farne una norma generale, sia possibile “condividere la frazione del pane” tra soggetti confessionalmente diversi. In modo particolare questo deve valere per quelle “forme di vita” come il matrimonio, in cui la “diversità di confessione” non impedisce la vita di una “chiesa domestica”. La chiesa domestica vive già la comunione eucaristica nei pasti comuni, nei sonni comuni, nella cura comune. Non ci sarà ufficio a Roma, a Tubinga o  a Mosca che abbia la autorità per negargliela. Si tratta piuttosto di riconoscere una comunione che già esiste, non di fare un atto creativo. Abbassando le pretese di autorità, e riconoscendo al Signore Gesù  e alla sua frazione del pane la autorità prima e ultima, tutto risulterà più semplice e più vero. E anche le chiare differenze tra le tradizioni, nello sguardo rinnovato dalla fede comune, potremmo leggerle non anzitutto come “errori” da cui guardarci, ma come “ricchezze” di cui non privarci.

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