La sostanza del ministero ordinato come problema sistematico. Breve riflessione sulle orme di Romano Guardini


ministerodonne

Le questioni che riguardano i motivi storici dell’“essere-divenuto”

e quelle che riguardano i fondamenti interni dell’“essere-cosi” si sovrappongono”

R. Guardini

La possibile apertura alle donne della ordinazione al diaconato, suscitata dalla iniziativa voluta da papa Francesco di costituire una Commissione di studio sul tema, ha aperto una fase di ripensamento e di apertura all’interno della Chiesa cattolica.

La autorità con cui la Chiesa può decidere un passaggio del genere deve essere garantita su due fronti. Da un lato, esige che la esperienza storica della tradizione offra esempi e prassi, che possano costituire, in qualche modo. o precedenti espliciti di una prassi di ordinazione diaconale di donne, o dinamiche che non escludano dalle possibilità una tale ordinazione. Questo lavoro storico, di per sé, è già stato compiuto. I documenti sono stati studiati e le pratiche sono state documentate.

Vi è però un altro aspetto della questione, che non deve essere affatto sottovalutato. Si tratta, in questo caso, di un profilo squisitamente sistematico. La storia, infatti, può parlarci della donna autorevole del V o del XI secolo. Ma la autorevolezza della donna, ossia il suo non essere più caratterizzata da “subiectio” o da “defectus emenentiae gradus”, è un mutamento iniziato soltanto nel XIX secolo, e riconosciuto molto tempo dopo dalla Chiesa come un “segno dei tempi”, con la scoperta del “ruolo pubblico della donna”: dal 1963, a livello ecclesiale, le cose non sono più le stesse.

Da quando, con la enciclica  Pacem in terris di papa Giovanni XXIII, si è formalmente accettato che il ruolo pubblico della donna sia per la Chiesa “segno dei tempi”, da cui la Chiesa può e deve imparare, tutto lo studio del passato non potrà mai più sostituire la novità di questa nuova condizione, inaugurata nel XIX secolo e impostasi da decenni almeno in una parte considerevole del mondo.

Ora, per la Commissione voluta da papa Francesco, si tratta oggi di riconoscere anzitutto questa novità, di accettare la ricchezza della autorità pubblica femminile e di ammettere la donna al ministero ordinato, nel grado del diaconato. Questa Commissione sarà allora non l’avvenire di una illusione, ma l’affermarsi della tradizione. Di una tradizione che sia capace di riconoscere non solo la autorità del passato, ma anche quella del presente e del futuro. Come è sempre stato, quando la prudenza dello Spirito ha avuto la meglio sulla cieca paura dell’inedito e sulla inerzia delle forme ecclesiali del passato.

La differenza tra questione storica e questione sistematica

Questo passaggio tuttavia appare particolarmente ostico e richiede una presentazione più accurata. Il lavoro della Commissione vuole anzitutto recuperare la comprensione storica della questione. Bene. Ma della storia della chiesa fanno parte tutti i secoli, i primi come gli ultimi. E la continuità della tradizione deve fare i conti con le discontinuità delle comprensioni culturali e sociali che hanno accompagnato la “natura femminile”.

Che cosa la Chiesa ha detto o fatto in rapporto alla donna ce lo dice la storia. Ma che cosa la Chiesa debba dire o fare domani, in rapporto alla donna, può dircelo solo la teologia sistematica. La sistematica deve essere “esperta storicamente”, ma la storia non vincola mai del tutto la sintesi sistematica. E’ una illusione che si possa costruire una sintesi sistematica soltanto sulla base di dati storici.

Ma poiché questa distinzione è tutt’altro che pacifica, e spesso ci illudiamo di poter chiedere ai fatti storici di risolvere le nostre questioni sistematiche, ecco il punto decisivo. Dal momento che la comprensione della donna ha subito una radicale trasformazione nella società liberale, aperta e ad alta differenziazione, e che tale trasformazione, a partire dal 1963, è diventata “autorevole” anche per la Chiesa, solo una teologia sistematica aggiornata sarà in grado non solo di elaborare una prospettiva sul futuro, ma anche di provvedere ad un criterio adeguato di lettura del passato.

Chi utilizza le norme del codice di diritto canonico, o i principi della teologia medievale, basati sulla teoria della “subiectio mulieris”, come criteri sistematici di considerazione storica della questione, cade in una “petitio principii” che inficia gravemente tutta la analisi. Per analizzare davvero la storia, devo sapere già in partenza che cosa voglio cercare. Quale donna sto cercando? Quale ministero? Quale ordinazione? Pretendo che i testi del IV secolo possano dirmi ciò che gli uomini hanno compreso culturalmente solo nel XIX secolo?

Per chiarire meglio questo problema è giusto ricorrere alle parole di un grande teologo e filosofo come Romano Guardini, che ha scritto sul tema un contributo assolutamente decisivo.

Ciò che è stato e ciò che deve essere”

R. Guardini ha condotto una riflessione sul rapporto tra “sapere storico” e “sapere sistematico” agli inizi della sua carriera, in un articolo comparso su “Liturgisches Jahrbuch” nel 1921 e di recente tradotto molto opportunamente su “Rivista Liturgica”: R. Guardini, “Il metodo sistematico nella scienza liturgica”, RL, 105/3(2018), 183-196. Si tratta di uno scritto assai importante, perché mette in luce, in una maniera particolarmente acuta, la differenza tra approccio storico e approccio sistematico. La logica dei fatti e la logica delle “ragioni” risultano intrecciate in modo non lineare. Leggiamo una affermazione centrale di questo studio:

Nel medesimo oggetto […] vi e un divenire e un essere, un mutarsi e un persistere, un effettivo e un vincolante. Al primo e orientata in modo particolare la ricerca storica, al secondo quella sistematica. Esse quindi si completano a vicenda nell’oggetto e nel metodo. Ciascuna ha bisogno dei risultati dell’altra come impulso e come autoverifica. Senza la storia, la sistematica corre il pericolo di costruire pregiudizialmente e in modo arbitrario. Essa deve quindi appropriarsi dei risultati storici, e su di essi misurare e rettificare i propri9. Senza sistematica, d’altro canto, la ricerca storica si perde nel flusso del meramente fattuale; i suoi concetti divengono confusi e le sfugge quanto vi e di stabilmente valido. Al contrario, i concetti e le linee sistematiche la aiutano a mantenere un ordine interno”. (187)

La necessaria integrazione tra il divenire storico e l’essere sistematico implica la esigenza per cui la teologia non solo non può lavorare soltanto su di un piano, ma che esiga anche la lucidità con cui si riesce a distinguere tra argomentazioni fondate sul divenire storico e argomentazioni basate sul compito sistematico. Se tra le due dimensioni non può esservi mai separazione, neppure può esservi confusione. Tra ciò che è e ciò che deve essere vi è sempre una differenza irriducibile. Ciò vale anche per il modo con cui argomentiamo circa il ministero ecclesiale. Le forme storiche, anche quando dettagliatamente documentate, non chiudono affatto lo spazio per una elaborazione sistematica, che non risulta assolutamente vincolata dalle forme storiche di esercizio del ministero. Ciò che Guardini ha studiato con acume a proposito della tradizione liturgica in senso lato può essere molto convenientemente applicato al dibattito attuale sul ministero. Lo si ascolti in questo ulteriore passaggio:

Tanto meno si permettera un’argomentazione del genere: ‘Il significato del presente elemento liturgico può essere solo questo; perciò, solo cosi può essere stato compreso all’epoca della sua formulazione’. Sarebbe uno sconfinamento illecito. Occorre rifiutare costruzioni storiche di questo tipo, elaborate a partire da prospettive sistematiche preconcette.(188).

Guardini sa rivelarci che, al di sotto di analisi storiche assai diffuse, si nascondono spesso “prospettive sistematiche preconcette”, che costringono i dati storici in ambiti problematici e in visioni categoriali del tutto arbitrarie e spesso assai unilaterali. Allegare “fatti” e fornire “ragioni” rimane un compito differente. Questo vale in modo speciale per la teologia del ministero ordinato.

Una ripresa di autorità

Va detto, infine, che un singolare parallelismo ha caratterizzato la vicenda recente della donna e della Chiesa. Nel momento in cui la donna acquisiva una rilevanza pubblica sempre più ingente e qualificata, la Chiesa entrava in una progressiva crisi di autorità. Mentre la donna acquisiva autorità, la Chiesa perdeva autorevolezza. O, per dire meglio, la Chiesa rischiava di ridurre sempre più la propria auctoritas ad un esercizio di autoritarismo, sostituendo spesso l’autorità dell’argomentazione con l’argomento di autorità. Così, la sola via con cui la Chiesa potrà riconoscere una almeno parziale autorità femminile corrisponderà, inevitabilmente,con il recupero di autorevolezza, mediante la cui la Chiesa può dire e fare “cose nuove”.

La prima cosa che la Commissione potrebbe indicare, dal punto di vista sistematico, come obiettivo di un ripensamento storico della “ordinazione diaconale della donna ” sarebbe, da questo punto di vista, la rimozione di un ostacolo istituzionale, nel quale si esprime in modo diretto e direi violento, il principio di autorità senza argomenti: ossia la esclusione della donna dalla ordinazione. Il Canone 1024 – introdotto nel testo del CJC nel 1917 e ripreso nel CJC del 1983 – dovrebbe essere riformulato per consentire la ordinazione diaconale femminile.

Il presupposto sistematico di questa riforma è la considerazione che il sesso maschile non fa parte della sostanza del sacramento dell’ordine. Ossia che oggetto di ordinazione sono tutti i battezzati con determinati requisiti, di cui non fa parte la appartenenza ad un certo sesso. Quindi la prima riforma necessaria consiste nella riscrittura del canone 1024, che recita oggi (come nel 1917):

– Can. 1024 – Riceve validamente la sacra ordinazione esclusivamente il battezzato di sesso maschile.

Il canone potrebbe diventare il seguente:

– Can. 1024 (riformato) – Riceve validamente la sacra ordinazione il fedele battezzato chiamato al servizio della Chiesa.

Una teologia sistematica che assuma uno sguardo rinnovato sullo sviluppo storico e sull’orientamento normativo dell’ultimo secolo, rimuove ogni ostacolo al riconoscimento della autorità femminile a livello di ministero diaconale. La riforma del codice, come orizzonte di restituzione di auctoritas alla donna – che sappia superare definitivamente ogni teoria della “subiectio” e del “defectus eminentiae gradus” – costituisce l’orizzonte sistematico con cui potrà essere prodotta una seria analisi storica. Potremo leggere la tradizione ecclesiale con uno sguardo più puro. Che abbia occhi per la “sana tradizione” e consideri così anche quella malata. E possa perciò discernere se sia giusto mettere in continuità con Gesù la misoginia che vuole purificare il luogo sacro dalla impurità del sangue femminile, ovvero la libertà di una parola e di un gesto diretto, differenziato senza discriminazione, autorevole senza clericalizzazione.

La storia di cui abbiamo bisogno è orientata da questo spirito. E sa che la principale autorità che la tradizione, quando è sana, possa desiderare non è solo quella che viene dal passato, ma prima di tutto quella che apre al futuro.

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