La penitenza secondo il Vaticano II: una risposta a Mons. Marchetto


Confessione donna (stampa Ottocento)

Dopo il mio intervento in dialogo con L. Orsy e la sua concezione del “futuro della penitenza”, Mons. A. Marchetto è intervenuto sul blog “Il Sismografo” per prendere le distanze da entrambi gli interlocutori (cfr. qui). Le sue perplessità, che riguardano le prospettive di avanzamento della riforma conciliare del IV sacramento, e che non vengono chiarite in modo molto diffuso, sono concentrate su una domanda finale, che viene così formulata: “…chiesto con rispetto ma con franchezza, un tale argomentare è ancora nella linea della giusta ermeneutica conciliare, quella ‘non della rottura e della discontinuità, ma della riforma e del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa’?

Ad avviso di Marchetto, i due autori –  tanto Orsy quanto chi scrive – avrebbero superato il limite di una “ermeneutica corretta” del Concilio, e sarebbero caduti al di fuori di ciò che è legittimo e corretto.

Ovviamente posso rispondere solo per quanto riguarda me, ma accetto la domanda di Mons. Marchetto e cerco di chiarire meglio perché io mi senta del tutto d’accordo con Orsy quando giudica insufficiente la riforma del rito della penitenza, anche se da lui dissento per la proposta concreta di “avanzamento”. Ecco dunque la mia risposta che formulo secondo quattro tesi, cui faccio seguire una adeguata spiegazione:

1) Il compito dottrinale è parte della eredità conciliare, anche a riguardo della penitenza

Poiché il Concilio Vaticano secondo non si può confondere con un frigorifero, che conserva prassi e dottrine ecclesiali immutate, ma è stato caratterizzata dalla “indole” pastorale, in cui l’antica dottrina viene chiarita mediante “riformulazioni del rivestimento”, credo che la debolezza della obiezione  sollevata da Marchetto dipenda da una lettura troppo superficiale del testo conciliare. Quando infatti il Concilio dice, come ricorda giustamente Marchetto, “Si rivedano il rito e le forme della penitenza in modo che esprimano più chiaramente la natura e l’effetto del sacramento” (SC 72), questa espressione implica una elaborazione della natura e dell’effetto del sacramento che non può essere in nessun caso risolta semplicemente con il metodo storico. Come diceva R. Guardini, lo storico ci dice ciò che è stato, ma solo il teologo sistematico può dirci ciò che deve essere. Il Concilio, assumendo la prospettiva pastorale, chiede alla teologia una riflessione profonda, audace e paziente sullo sviluppo storico e sulla definizione dell’essenza del IV sacramento;

2) Le forme storiche del sacramento, che sono mutate molto profondamente, permettono di leggere anche la tradizione attuale in modo dinamico

La storia del sacramento della confessione ha trovato forme di attuazione di volta in volta diverse. Il confessionale è nato solo nel XVI secolo, l’atto di dolore ha sostituito la contrizione, un certo numero di preghiere ha sostituito la penitenza…tutto questo è stato possibile, efficace, ma non è affatto necessario. Per questo la individuazione di nuovi equilibri tra gli atti del penitente e la loro espressione ecclesiale e personale fa parte di ciò che la Chiesa è tenuta a sentirsi dire dai teologi e dai pastori. Sospettare che questo sia “una ermeneutica della rottura” non fa onore né agli storici né ai teologi;

3) Il centro del sacramento è la guarigione del cristiano entrato in crisi a causa del peccato. Centro non è il perdono (che il IV sacramento ha in comune con i sacramenti della iniziazione) bensì la risposta del cuore, della bocca e del corpo del peccatore pentito.

Questa affermazione dipende non solo dal Concilio Vaticano II, ma anche e forse soprattutto dal Concilio di Trento. Il quale ha stabilito in modo fondamentale la impossibilità di considerare “della stessa dignità” tutti i sacramenti. La esperienza del perdono, nel cristiano, nasce e si rafforza nel contesto battesimale e eucaristico. Quando entra in crisi, trova nel “processo penitenziale” del IV sacramento il luogo sicuro per recuperare il rapporto con Dio e con il prossimo. Che cosa significhi, oggi, per la Chiesa, riscoprire questa grande e antica verità, implica una rielaborazione della tradizione, una “traduzione della tradizione” che esige grande lucidità e coraggio, e che non può limitarsi a qualche ritocco del sistema penitenziale tridentino.

4) Una ermeneutica della riforma nella continuità implica inevitabilmente significative discontinuità

Il recupero di una collocazione del IV sacramento nella “patologia ecclesiale” – e non nella sua fisiologia – è il frutto della grande riscoperta della iniziazione cristiana. Questo esige oggi un cammino coraggioso di ripensamento del processo ecclesiale di recupero della comunione, nel quale le variabili dello spazio e del tempo debbono essere accuratamente riviste. Il confessionale  come luogo e la brevità burocratica della confessione debbono essere tradotte in termini nuovi. Solo così saremo fedeli non solo alla tradizione, ma anche a quel grande evento che è stato il Concilio Vaticano II, il cui significato non può mai prescindere dall’approfondimento rigoroso delle nozioni sistematiche che sono implicate in tutti i progetti di riforma. Senza un tale approfondimento, trasformeremo un Concilio in un freezer, che è strumento adeguato ad un museo, ma mai ad un giardino.

 

 

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