La dignità delle cose. Spunti sulla sensibilità plurale della teologia su affetti, relazioni e matrimonio (di R. Saccenti)
Ringrazio il prof. Saccenti per questo testo, che riprende il dibattito apertosi intorno alle dichiarazioni di papa Francesco sulle “unioni civili”. Il compito di mediazione della tradizione teologica non si esercita contrapponendo il piano ecclesiale e il piano civile, ma integrandoli. La grande tradizione medievale, riletta più di 800 anni dopo, può essere di grande aiuto, per far uscire la mens ecclesiale da impostazioni troppo anguste e troppo condizionate dall’assolutismo moderno. Anche la Chiesa deve imparare dalle cose che patisce e scoprire il bene che si nasconde sub specie impietatis.
Spunti sulla sensibilità plurale della teologia su affetti, relazioni e matrimonio
di Riccardo Saccenti
La discussione, a tratti estremamente accesa, attorno all’affermazione di Francesco sulla necessità che la politica provveda a tutelare con una legislazione adeguata i diritti di relazioni affettive stabili anche fra persone dello stesso sesso, nel suo svilupparsi, acquista una serie molteplice di valori soprattutto all’interno del perimetro della Chiesa cattolica.
La teologia come storia di comprensione della fede
La possibilità, rivendicata da autorevoli esponenti sia del collegio cardinalizio, che dell’episcopato, che del mondo della cultura teologica e filosofica, di dissentire apertamente dalle parole del Papa contribuisce a restituire il magistero della Chiesa, anche quello papale, ad una dimensione che da lungo tempo era stata quasi dimenticata. Ossia al suo avere un carattere “relativo” al quadro storico, culturale, sociale e politico, nel quale viene elaborato. Fatto salvo che per l’esercizio dell’infallibilità, che su questioni dogmatiche compete al vescovo di Roma e al Concilio Ecumenico e riguarda la conferma di contenuti già creduti dal Popolo di Dio, l’insegnamento della Chiesa è frutto di una dinamica di ermeneutica reciproca fra realtà e Vangelo che si evolve nel tempo, non resta mai uguale a sé stessa, perché mutano le condizioni e le esperienze che caratterizzano l’umano e dunque muta e si approfondisce l’intelligenza che i credenti possono avere della Parola di Dio. Un processo che rende valide le ermeneutiche dei contenuti della fede del passato e i sistemi di valori e principi su esse fondati per modellare, in quei contesti, anche gli aspetti sociali della vita delle comunità cristiane. Al tempo stesso però, appare evidente come non vi possa essere una sola ermeneutica valida in modo astorico e dunque dotata di un valore normativo cogente per ogni credente e ogni comunità cristiana, a prescindere dal contesto in cui vivono la propria fede.
Riemerge, cioè, un elemento cruciale dell’evoluzione dell’intelligenza delle cose alla luce del dato di fede per come si è dipanata nel cammino storico del cristianesimo: il suo essere strutturalmente segnato da un relativismo fondato sulla duplice consapevolezza della transitorietà delle cose del mondo e del fatto che proprio la “scena del mondo” che passa sia lo spazio del rapporto dell’essere umano e del creato con l’amore di Dio. Una prospettiva questa che si fonda su quell’evento dell’Incarnazione che è il cuore pulsante e dinamico della fede cristiana.
Si tratta di una sensibilità religiosa che si è sempre tradotta nei diversi contesti cristiani e che soprattutto accompagna quel lungo, plurale e articolato processo di intelligenza della fede che è la storia della teologia. Una storia che non è mai sganciata dall’evoluzione esperienziale, per così dire, storico-sociologica, tanto del vissuto individuale quanto di quello comunitario dei cristiani: perché la dimensione del sapere risponde a sollecitazioni che nascono dal radicamento nella storia, secondo dinamiche che sono ben visibili già nei racconti evangelici, nelle vicende che sono al centro degli Atti degli Apostoli e nelle lettere di Paolo.
Il matrimonio, ovvero: riconoscere il valore dell’umano
La consapevolezza che la riflessione esegetica o teologica restituisca un’intelligenza plurale delle cose emerge anche e soprattutto nel caso di quelle questioni che attengono proprio alla dimensione sociale della vita di fede, come è il caso delle relazioni affettive e dei matrimoni. È allora interessate sottolineare alcuni elementi che sono costitutivi della nascita e dello sviluppo della comprensione teologica del valore del legame matrimoniale nei termini di un sacramento. Si tratta di un processo di culturale che si sviluppa secondo una dinamica che la tradizione cristiana chiama “sapienziale”, proprio perché muove dalla realtà delle cose e dall’esigenza di costruire un circolo ermeneutico fra questa e il dato di fede. Il nodo storico a partire dal quale si dipana una riflessione più strutturata sul matrimonio è la seconda metà dell’XI, in un quadro del quale le diverse istanze di riforma portano a ridefinire le forme sociali e giuridiche con cui si esprime la Chiesa e vede così svilupparsi, accanto alla riflessione teologica sul clero non uxorato, quella sulla natura e il valore del matrimonio. E si tratta di una riflessione che prende le mosse dal dato sociale e giuridico del tempo, per approfondire poi il valore teologico che questo istituto ha alla luce del Vangelo e della fede.
Tale dinamica è ben visibile in uno dei testi fondativi, tanto sul terreno giuridico che su quello teologico, della sacramentaria: il Decretum di Graziano. La natura del matrimonio, in quella raccolta, viene espressamente collegata alla nozione di ius naturae non sulla base del testo sacro ma della constatazione “sapienziale” che la cultura secolare, giuridica, ereditata dal sistema normativo della Roma imperiale, assegna che l’unione fra maschio e femmina e la cura per la prole rientrano nella sfera delle norme che regolano la vita degli animali, incluso l’uomo. Graziano riconosce che vi è un livello “naturale”, che è quello esplicitato dal diritto romano, che fa del matrimonio un’istituzione che precede la dimensione sociale e civile, ne è il presupposto, perché è ciò che rende possibile la sussistenza fisica non solo della specie ma della dinamica sociale. Da qui il riconoscimento della dignità del matrimonio che un sistema culturale laico, anzi pagano, come era quello del diritto romano, già fissava prescindendo dalla lettura religiosa e muovendo da una comprensione del ruolo fisico e sociale del rapporto fra maschio e femmina. Tuttavia, il Decretum non riduce solo a questo la “naturalità” del matrimonio, perché accanto alla formulazione del diritto naturale tratta dal diritto romano, Graziano pone quella secondo cui lo ius naturae, nel caso dell’essere umano, non si riduce al dato fisico: l’essere umano è dotato di uno spessore di intelligenza, affettività e spiritualità che non risponde alle sole esigenze del suo appartenere al genere “animale”. Ed è proprio nel rapporto fra l’esperienza, anche quella delle relazioni matrimoniali, e il dato di fede che Graziano può formulare questa rilettura e spiegare che la legge naturale è quanto si trova tanto nel Primo quanto nel Secondo Testamento e che coincide con la cosiddetta “regola d’oro”: fa’ agli altri ciò che vorresti che gli altri facessero a te. L’idea che emerge dal testo grazianeo è allora che il dato naturale, per l’essere umano, non sia solo quello fisico, ma che proprio l’esperienza di cosa sia l’essere umano rende necessario ampliare la sfera del naturale alla dimensione dell’intelligenza, della ragione, delle relazioni umane, soprattutto di quelle affettive.
Il sacramento suppone la natura umana (che è cultura)
Tutto questo si riflette su una comprensione plurale del matrimonio, che diviene sacramento non solo perché si riconosce il suo valore come struttura fondante le relazioni sociali, ma perché la teologia medievale vede in esso l’espressione di quella affettività che è propria di chi è dotato della capacità di determinare i propri atti. Ossia si riconosce che l’unione fra uomo e donna, oltre a rispondere ad una dinamica fisica, risponde soprattutto alla natura dell’essere umano: al suo avere una intelligenza, una ragione, una relazionalità dettata dall’amore e non dall’istinto. Ed è questo che la teologia dei medievali vede come lo spazio nel quale opera la grazia di Dio e che dunque, quando arriva ad una maturità tale per cui la dimensione della fede abita stabilmente quella relazione assurge alla dignità di sacramento. Una comprensione del matrimonio, questa, che plasma le forme “sociali” del matrimonio medievale: ad esempio, la prassi corrente di consentire, anzi favorire una lunga esperienza di convivenza, anche accompagnata dalla nascita dei figli, prima di poter accedere al sacramento matrimoniale, che segnava, dunque, un passaggio profondamente marcato dall’esperienza della famiglia piuttosto che essere il presupposto per la costituzione di quest’ultima.
Consapevolezza della realtà, intelligenza della fede a partire dal dato esperienziale, consapevolezza dell’intreccio fra cultura teologica e forme sociali del cristianesimo, sono elementi costanti della storia della teologia che riemergono oggi grazie alla discussione suscitata dalle parole del Papa. Pur nella durezza e forse superficialità di molti degli interventi che si oppongono all’apertura di Francesco e alla ridefinizione del rapporto fra piano sociale e politico e forme ecclesiali, la discussione è un’occasione per restituire visibilità alla pluralità strutturale dell’insegnamento della Chiesa: tanto di quello teologico quanto di quello magisteriale. Una pluralità che ha sempre caratterizzato soprattutto quanto atteneva alle relazioni fra esseri umani, dove proprio la storicità è un tratto ineliminabile e rende necessario il coraggio di relativizzare sempre ogni esperienza rispetto al dato di fede, mettendo in guardia dall’assolutizzare ogni paradigma e soprattutto riconoscendo che ogni passaggio segna una comprensione valida e ricca di quello che il Popolo di Dio crede.
Riccardo Saccenti
Tradizionalisti e modernisti: il rischio di un dialogo tra sordi
Agosto 11, 2020 / gpcentofanti
Viviamo in un’epoca in cui la mentalità di fondo è intellettualista. Chi cerca di fuggire dalle chiusure della ragione a tavolino può finire nello spiritualismo delle sole intenzioni o nel pragmatismo della vita concreta. E questo perché la cultura di riferimento resta quella suddetta. Se ci si fonda su una ragione astratta restano poi un’anima disincarnata e un resto pragmatico, “quotidiano”, dell’umano. Ecco le tre correnti che emergono: razionalismo, spiritualismo, pragmatismo.
Davvero significativo vedere come il dialogo tra tali orientamenti resti spesso un parlare tra sordi. La ragione astratta o le fughe da essa chiudono l’uomo in aspetti riduttivi di sé stesso. Le risposte astratte, prefabbricate; la spiritualità delle mere intenzioni, alla fine distorte perché meno attente all’umano concreto, specifico, contingente, che viene delegato nelle cose più importanti, con vario sospetto, alle conoscenze scientifiche e nelle altre ad una mera, riduttiva, quotidianità; il pragmatismo dell’aiutare il funzionamento concreto, l’accordarsi concreto ma lasciando i riferimenti in varia misura da parte perché appunto li si vede come astratti, disincarnati.
Il punto dunque è che questi orientamenti in un modo o nell’altro fanno capo alla ragione astratta. Questa è chiusa in sé stessa, come un computer. Viene ridotta, frammentata, la coscienza spirituale e psicofisica che esiste e matura nella luce serena, che scende a misura, delicatamente, come una colomba.
Solo il cuore, appunto la coscienza integrale, nello Spirito sereno è nella naturale apertura di tutto l’uomo. Rientriamo in contatto con la nostra umanità semplice, libera e con tutta la viva realtà. Oggi la stessa scienza, in crisi perché la vita reale non può venire ingabbiata in logiche schematiche, cerca il contatto con la realtà concreta finendo nel pragmatismo per i riduttivismi summenzionati. Si passa da Platone, dal razionalismo o nel migliore dei casi dallo spiritualismo, ad Aristotele, invece di cercare, per un non credente tendenzialmente, il concreto discernere divino e umano nello Spirito sereno del Gesù dei vangeli.
Il risultato di queste paralisi, di queste chiusure, è il non avvedersi del problema profondo che fontalmente orienta la vita, l’incontrarsi. Il tradizionalista resta nei suoi schemi logici astratti, il modernista cerca un cambiamento che però è pensato a tavolino o vissuto in modo meramente pratico. Dunque orientamenti che paradossalmente consolidano le perplessità degli altri.
Gli schematismi favoriscono il tecnicismo, lo svuotamento delle persone, il prevalere degli apparati con i loro codici uniformanti. La mancata viva e libera partecipazione favorisce tali meccanicismi. La gente spogliata di ogni cosa viene sempre più manipolata, anche da chi si oppone in modo istintivo, passando, come visto, al meccanicismo opposto. La società va verso il crollo e, incanalata da questi orientamenti, sembra non poter fare altro che subire un destino.
Sarà un grave crollo a costringere a cercare un salto di qualità, l’uscita dal razionalismo, o una lenta maturazione anche tra qualcuno nelle elites potrà in tempo innescare e diffondere una rinascita? Ci saranno al tempo maturo doni particolari dal cielo, anche nel loro poter toccare il cuore di molti? Certo, mentre molti potenti rischiano di restare chiusi nei loro palazzi, ancora una volta la gente più facilmente può beneficiare concretamente di chi le viene concretamente vicino nel quotidiano con un discernimento più adeguato, più attento alle specifiche vite personali, agli specifici bisogni. Forse questi contrasti e questi travagli faranno maturare nel quotidiano, tra le persone, il bisogno di un traboccamento verso una umanità semplice, in cerca graduale, a misura, della propria serena identità e nello scambio con gli altri. Superando gli opposti scogli delle astrazioni e delle soluzioni meramente funzionali. Forse da qui germoglierà gradualmente, se non vi saranno catastrofi in tutto definitive, una società rinnovata.