Il Giubileo secondo “Ida” e “Philomena”. Magistero e ministero di misericordia al cinema.


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Anche al cinema si può fare esperienza profonda e toccante di come agisce la “misericordia Dei” e di come Dio si faccia presente nei suoi atti di misericordia, che irrompono misteriosi e sorprendenti nella vita di uomini e donne.

Due film, che hanno come protagoniste due donne, ci offrono due spunti di grande rilievo: parliamo di “Ida” e di “Philomena”, due opere molto diverse, ma che sono accomunate da alcuni tratti caratteristici. In entrambi i films c’è una donna che fa i conti con la propria storia, che “narra” chi è e che lo fa provando a raccontarsi più a fondo, a capire se stessa, anche quando ciò è doloroso e imbarazzante. In entrambi i casi, tuttavia, la narrazione è ostacolata da un “segreto”, da un “mistero”, alla cui rivelazione tende tutto il film. Ma nel cuore di questa “rivelazione”, prima ancora della verità o della coerenza, appare un “evento di misericordia”, una forma “impensata” di perdono, di apertura di credito immeritata, che cambia tutti i giochi, della vita e del racconto. Inoltre, entrambi i film sono ambientati in un contesto “monastico” o “religioso”, hanno a che fare con ambienti di “monache” o di “suore”, di vita contemplativa o di vita attiva. In questo intreccio scopriamo cose interessanti.

La misericordia ricevuta

Nel film “Ida” un giovane novizia, che sta per “prendere i voti”, viene invitata dalla superiora del monastero a “conoscere la zia”, di cui ignorava l’esistenza fino a quel momento. Questa “uscita” dalla clausura diventa un “cammino verso la radice”. Attraverso la zia – che è giudice, atea, con relazioni sentimentali saltuarie e dipendenza dall’alcol – la giovane monaca recupera la sua identità ebraica, la persecuzione e lo sterminio della sua famiglia, fino a tornare sul luogo in cui tutti i suoi sono stati uccisi e sepolti. Può allora domandare (e domandarsi), di fronte alla tomba dove appaiono i resti dei suoi: “E io, perché non sono qui?”. Questo “ritorno alla radice” mette a dura prova tutti. La zia si suicida. Ida si spoglia degli abiti monastici, fuma, beve, ama un sassofonista, ma poi comprende fino in fondo se stessa e può rientrare, come una “figlia minore”, nel monastero. Solo dopo essersi sentita radicalmente salvata, perdonata, riconosciuta, può decidere fino in fondo di sé e camminare con passo deciso, per la prima volta, verso la sua vita donata, mentre proprio sulle immagini finali, per la prima volta, sentiamo risuonare la versione pianistica del corale “Ich ruf zu dir, Herr”, “Io ti invoco, o Signore”, di J.S. Bach, sulle cui note scende il sipario.

La misericordia donata

Nel film “Philomena” una anziana signora – che è stata ragazza madre e che come tale è stata rinchiusa con il suo neonato in un Istituto religioso di suore in Irlanda, dove poi il figlio è stato dato in adozione ad una famiglia americana di nascosto dalla madre – cerca di ritrovare il figlio 40 anni dopo, in un complesso viaggio negli Stati Uniti. Ciò che emerge, progressivamente, lungo il film, è che la “domanda di verità” di Philomena non è affatto una richiesta di vendetta: il suo diritto di conoscere il figlio e di essere riconosciuta da lui non è “contro” qualcuno, ma cerca una riconciliazione con la propria storia. A metà del film apprendiamo però che la ricerca non avrà successo: il figlio è già morto, lei non potrà più incontrarlo. Ma lei non si dà per vinta: vuole scoprire come ha vissuto, chi è stato e dove è sepolto…e si chiede: avrà conservato mio figlio memoria di me, essendomi stato strappato prima dei 4 anni? Molte cose Philomena deve ancora scoprire: che il figlio era diventato un famoso avvocato, che non si era mai sposato, che conviveva con un compagno, che si era ammalato di AIDS e che era morto alcuni anni prima e che…aveva voluto essere sepolto nel cimitero dell’Istituto, dove aveva vissuto i suoi primi anni, con la madre. Philomena può tornare sulla tomba del figlio, ritornando in Irlanda, ritornando dalle stesse suore da cui era partita e che fino alla fine provano a metterle ostacoli, a negare, a non ricordare…Ma Philomena tutto perdona, esercita misericordia, sulla loro come sulla propria vita.

 

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Il tema della fede e le diverse immagini di Chiesa

Molti sono i profili interessanti di questi due film di valore. In particolare vorrei fare emergere quelli che mi sembrano più utili nel contesto del Giubileo della Misericordia e per una “Chiesa in uscita”:

– in entrambe le pellicole al centro vi è una “narrazione di sé”: sia Ida, sia Philomena sono donne che vogliono scoprire la propria radice. Per una al centro sta la condizione di figlia e per l’altra la condizione di madre.

– entrambe vivono una relazione ecclesiale in contesto “religioso-monastico”, ma secondo condizioni opposte. Ida viene sollecitata a “fare verità” sulla sua vita, sulla soglia della sua pienezza di vocazione. Questo è indice di una Chiesa coraggiosa, che non teme la verità della storia dei soggetti e le implicazioni delle loro storie complesse. In Philomena, invece, troviamo una Chiesa spaventata, che rimuove la verità e la storia e che si barrica dietro “principi morali”, dove si sfigurano le storie e le identità.

– In entrambi i film si ritorna, alla fine, al punto di partenza: Ida ritorna al monastero, Philomena ritorna all’istituto di suore. Per entrambe è decisiva la scoperta di una “tomba”. La tomba nel bosco, dove Ida ha ritrovato se stessa, donata alla vita, e la tomba nell’Istituto, dove Philomena ritrova il figlio perduto e può perdonare se stessa e tutta la sua storia.

– In entrambi i film è in azione una “coppia”: Ida e la zia atea, Philomena e il giornalista che la accompagna nella sua ricerca. Lungo il film le “coppie” non restano uguali, ma si alterano. La “storia di Ida” fa letteralmente esplodere nella zia il senso di colpa, di abbandono, di insensatezza, fino al suicidio. La “storia di Philomena” trasforma il giornalista da “aggressivo” a “comprensivo”, lo rende più saggio e più lungimirante, gli permette di comporre meglio le logiche del diritto con quelle del dono.

– Per fede, Ida può vivere il “dono ricevuto” come lode, rendimento di grazie, benedizione e fare della propria vita un dono, nonostante tutto. Per fede, Philomena può perdonare, di cuore, tutte le offese che ha ricevuto dalle insincerità antiche e recenti delle suore dell’Istituto. Una monaca può perdonare se stessa, per il fatto di essere viva. Una donna può perdonare le suore, che le hanno ucciso la possibilità di “conoscere suo figlio”.

– L’ordine della giustizia risulta falso, se resta senza misericordia. Identificare la misericordia con la giustizia è la peggiore delle idolatrie. La grazia corregge e umanizza la legge. In Ida e in Philomena troviamo due modelli di “vita misericordiosa”: sia per chi sa riconoscere di essere stato oggetto di misericordia, sia per chi può riconoscersi chiamato ad esercitare misericordia verso chi non ne ha avuta per lui. La grazia ricevuta è grazia da donare.

– Chi fa doni nel latino antico è “magister”; chi riceve doni è “minister”. Il magistero di Philomena e il ministero di Ida sono esempi preziosi per l’autocoscienza ecclesiale, nella quale la vera testimonianza del “dono ricevuto” sta proprio nel “dono offerto”. Dalle immagini di questi due film di qualità ci è offerto un itinerario originale per riflettere sul “primato della misericordia”, che si intreccia sempre con le vite complicate e misteriose di tutte le donne e di tutti gli uomini.

 

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