Guardini sulla pena di morte: infondata e tuttavia da rimpiangere?


guardinibergoglio

In un breve scritto del 1961, Sul problema della reintroduzione della pena di morte (in R. Guardini, Scritti politici, ed. M. Nicoletti, Brescia, Morcelliana, 2005, 543-547) troviamo una riflessione forte, anche discutibile, ma utile a illuminare, quasi 60 anni dopo, le nostre discussioni successive al mutamento del CCC da parte di papa Francesco sul tema della “pena di morte”. Vorrei qui presentare brevemente il testo di Guardini e la sua tesi di fondo, per poi confrontarlo con la nostra discussione attuale, che ne risulta per certi versi decisamente illuminata.

1. Il testo e la tesi di Guardini sulla pena di morte

Nonostante la sua brevità, il testo è assai denso. Procede in tre passi. Nel primo denuncia una certa confusione nel dibattito del suo tempo, enumerando una serie di “argomenti” da considerare separatamente: la restrizione della libertà non sembra pena sufficiente a ristabilire la giustizia; l’abuso della pena di morte da parte dei regimi nazisti e comunisti l’ha resa un omicidio legalizzato; la esecuzione viene oggi percepita come disumana; non c’è accordo sul diritto dello Stato a comminare la pena di morte; non più colpa e peccato, ma deterrenza e riabilitazione giustificano la pena. “Pertanto alla pena di morte sembra mancare una fondazione sufficiente” (544).

Ma queste argomentazioni, ad avviso di Guardini, non colgono il “nesso decisivo”. I difensori della pena di morte partono da un presupposto metafisico-religioso: un giudizio sulla vita o sulla morte può essere pronunciato solo da uno Stato che si riconosca una autentica autorità. Non come esercizio di una funzione dell’ordinamento, ma come “rappresentante dell’autorità in quanto tale, dunque della autorità di Dio e della sua maestà” (545).

Per Guardini questo modo di difendere la pena di morte non deriva da motivi dispotici o sadici, “ma dalla stessa radice da cui deriva l’amore, cioè dalla convinzione che l’esistenza è determinata personalmente, in ultima istanza dalla personalità assoluta di Dio” (545). Ma se lo Stato rifiuta questa rappresentanza, perde quel “peso ontologico” che costituisce il presupposto di un giudizio legittimo sulla vita e sulla morte. Quando questo è perduto, il rapporto con la pena di morte diventa o utilitaristico o criminale.

Siccome Guardini riconosce che, già ai suoi tempi – ossia quasi 60 anni fa – questa riconduzione della autorità alla sua base ontologica “non sembra avere più luogo”, allora una eventuale reintroduzione della pena di morte sarebbe priva di fondazione autentica.

Ma per Guardini resta come una ferita aperta: egli ribadisce, con una certa dose di nostalgia, che “l’ordinamento giuridico che punisce determinati delitti gravi con pene che prevedono soltanto una restrizione della libertà è oggettivamente insufficiente e finisce necessariamente per condurre a una disgregazione della coscienza giuridica e dell’ordine della vita” (546). Dunque, per Guardini, l’orizzonte ultimo della comunità sembra poter escludere la pena di morte solo come “caso di necessità”, ma quasi ne esige la possibilità come condizione di una “autorità assoluta”. Sembra che uno Stato, che si privasse strutturalmente della possibilità di giudicare sulla vita e sulla morte, perderebbe la sua caratteristiche autorevole, avendo smarrito la funzione di “rappresentanza” della maestà divina.

2. Una parola che viene “da un altro mondo”, ma che sa scrutare quello nuovo

La lettura del testo di Guardini è davvero sorprendente. Vi appare, forse in modo esageratamente accentuato, una teoria della obbedienza e della autorità, non nuova in Guardini, ma che forse crede di trovare nella “pena di morte” la sua forma esemplare. Da questo punto di vista Guardini appartiene ancora, pienamente e in modo convinto, ad un mondo che ritiene inconcepibile escludere totalmente la pena di morte dalla esperienza della “autorità legittima”. Ma Guardini partecipa già del mondo nuovo e pertanto sa che le condizioni culturali, sociali e storiche non permettono più di comprendere ciò che “fonderebbe” la pena di morte in modo giustificato.

Guardini offre un argomento molto utile per comprendere il mondo che fu: rende giustizia alla tradizione che, interpretando il potere statale come “rappresentanza di Dio” – da Paolo, a Lutero al Re Sole – non può rinunciare alla “pena di morte” per non perdere sia l’autorità, sia il suo fondamento, ossia Dio. Questo pensiero tradizionale diventa tradizionalismo nel mondo tardo-moderno. Guardini è, sulla pena di morte, affascinato dalla tradizione, ma in modo non tradizionalistico. Conosce la autonomia, conosce la mediazione. In modo singolare, ma efficace, sa di non poter semplicemente argomentare in modo “astratto”, come fanno i tradizionalisti. Se il “fondo ontologico” regge, allora la pena di morte ha la stessa origine dell’amore. E il condannato a morte può essere riconosciuto come santo. Ma quando il “peso ontologico” viene a mancare, non può più essere presupposto o imposto, e occorre riconoscere che la pena di morte diviene o cinismo o atto criminale.

3. Una lucidità sofferta, ma illuminante

Guardini, nonostante la nostalgia che affiora dalla sua pagina, resta lucido. Offre una soluzione non tradizionalistica. Ma sente il peso di un mondo di cui non comprende fino in fondo la novità. Che la scomparsa della pena di morte debba portare “a una disgregazione della coscienza giuridica e dell’ordine della vita” (546) è un giudizio che non influisce sulla soluzione, ma che mostra una sofferenza guardiniana di fronte al mondo contemporaneo. Egli riconosce e onora la novità, anche se tende a giudicarla con le categorie del passato.

Forse può essere utile al dibattito di oggi tenere bene a mente la argomentazione di Guardini, con tutta la sua lucida debolezza: vi è stato un mondo in cui la autorità di vita o di morte permetteva di identificare, in un solo punto, la sorgente dell’amore e la titolarità della pena di morte. Già nel 1961, per Guardini, non è più questo il caso. Con dolore e con fatica, egli risponde: quel mondo non torna più, in quella forma e con quell’ordinamento. Se potessimo trovare solo un decimo della lucidità di Guardini, oggi, tra le schiere di coloro che si scandalizzano per la riformulazione del CCC sulla pena di morte! Da lui, se lo hanno letto, hanno imparato solo la nostalgia. Che Guardini sapeva signoreggiare e tenere al suo posto, mentre i tradizionalisti lasciano ad essa, con risentimento, di coprire tutto il campo della questione, senza prestare più alcuna attenzione né alla storia che cambia né alla cultura che si sviluppa.

 

Share