“Fare penitenza” nel Giubileo: domande e risposte


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Questioni sulla penitenza (in occasione del Giubileo)

Un dialogo sulla penitenza, soprattutto nell’anno giubilare, può essere opportuno, per sollevare quegli aspetti della confessione “che nessuno affronta”. Approfitto delle franche domande sollevate da G.C.Martini per entrare in questioni tanto delicate quanto urgenti.

Le domande (sollevata da Giancarlo Martini)

C’è un aspetto del giubileo che nessuno affronta, quello relativo al sacramento della riconciliazione. Da papa Francesco è inteso sempre e solo nella sua forma privata, “auricolare”, e mai nella forma comunitaria. La dimensione ecclesiale, e quindi comunitaria, del sacramento è sottaciuta o compressa nell’azione dei ministri ordinati. Come ben sai la forma “privata” ha assunto varie modalità nel corso della storia e addirittura era assente nei primi secoli.  Se “Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della chiesa” (SC 26) – non pertanto della sola gerarchia – come si rende visibile questo nella celebrazione del sacramento della riconciliazione? Quale ruolo al popolo di Dio nell’offerta del perdono dei peccati? Perché la seconda e terza forma del sacramento della penitenza sono scomparse, e perché le penitenze comunitarie, anche nella seconda forma, sono diventate semplici contenitori di tante penitenze individuali, magari con l’ostensione dell’eucaristia?  Inoltre la riduzione dell’azione liturgica al ministro non accentua il suo essere più un controllore che un facilitatore di grazia? La forma “privata” poi accentua la dimensione dell’accusa, della confessione, rispetto al percorso penitenziale di conversione. Non si ingenerano poi pesanti confusioni tra celebrazione del sacramento e direzione spirituale? L’impegno di papa Francesco nel contrastare una visione individualistica della vita sociale e meno gerarchica della vita ecclesiale (collegialità e sinodalità) non stride con una penitenza solo privata e delegata ai ministri? Non sono domande puramente teoriche, perché nelle comunità di cui faccio parte, cerchiamo da tanti anni di continuare a proporre e valorizzare la penitenza comunitaria ( da qualche anno mi occupo io della preparazione dei testi), come momento in cui le persone della comunità si riuniscono per ascoltare insieme la Parola di Dio, per lasciarsi interrogare, per riconoscere infedeltà e deviazioni, per invocare insieme il perdono e riprendere così il cammino, assumendosi ciascuno la propria parte di responsabilità. Negli anni settanta veniva da noi celebrata nella terza forma (assoluzione generale), ma il vescovo di allora intervenne per proibirla. È possibile discutere di questi argomenti?

Le risposte: storia e pastorale a confronto

Caro Giancarlo,

le domande che sollevi toccano un nervo scoperto della tradizione cattolica. Ossia il modo di celebrare e di concepire il “sacramento della penitenza”. Qui io credo che sia necessario fare alcune affermazioni concatenate, che permettono di comprendere la evoluzione del sistema penitenziale, la sua fortuna e le sue attuali difficoltà. Per secoli la confessione è stata “semel in anno”, esattamente come la comunione. Noi siamo ancora all’interno di questo modello, ne godiamo delle inerzie, ma ne siamo anche vittime. Il “formalizzarsi” della penitenza è divenuto il modello con cui spesso interpretiamo anche la confessione regolare (settimanale o mensile). Ciò ha progressivamente messo in ombra la vera giustificazione del IV sacramento, ossia la “riabilitazione del battezzato caduto in colpa grave”. In altri termini, la giustificazione di un “altro sacramento”, diverso dal battesimo/cresima/eucaristia, volto non solo ad annunciare “lo stesso perdono del peccato”, ma a realizzare questo annuncio nella vita dei singoli battezzati peccatori, sta proprio nella sua “diversità”. Mentre i sacramenti della iniziazione cristiana sono la esperienza di una “comunione in Cristo”, il IV sacramento rende possibile il recupero della “comunione perduta”. Questa caratteristica può essere descritta così: mentre i sacramenti della iniziazione cristiana realizzano il “dono della comunione”, il sacramento della penitenza conferma il dono di grazia, ma si prende cura della –e si prende a cuore la – risposta della libertà.

Per questo si chiama “della penitenza”, perché lavora in primo luogo sulla risposta del soggetto al dono di Dio. Come è evidente questa lettura mette in primo piano un duplice fronte problematico, oggi:

– da un lato nel sacramento della penitenza il lato più vistosamente mancante è il “fare penitenza”. Manchiamo oggi della evidenza per cui da un singolo “atto di assoluzione” scaturisce un percorso penitenziale non di minuti (magari di sola preghiera personale) ma di settimane, mesi e anni di “faticoso cambiamento”.

– dall’altro è evidente che questa natura di “pellegrinaggio” del sacramento deve contare su “tempi lunghi” e su “percorsi individualizzati”, ma anche su “contesti linguistici comunitari ed ecclesiali”.

Per questo a me sembra che oggi siano superate sia le soluzioni “semplicemente individualistiche”, sia le vie “generali” per affrontare la tradizione penitenziale. E’ evidente, infatti, che la forma “classica” scivola troppo facilmente in una “routine” in cui la ripetizione del sacramento sembra spesso l’unica vera penitenza. Si fa penitenza confessandosi. Ma questo è non solo troppo poco, ma spesso diventa fuorviante. D’altra parte la pretesa che in una “generalità” si possa superare il peccato è una diversa ingenuità. Il termine stesso “assoluzione in forma generale” tradisce il suo limite: noi abbiamo bisogno di “penitenze comunitarie”, che non possono essere né solo private né solo pubbliche. Ora, con tutto ciò, non mi sento proprio di ritenere superate tutte quelle forme di risposta al disagio ecclesiale di fronte alla “confessione post-tridentina”, ma ne segnalo il limite strutturale. Tu hai perfettamente ragione nel dubitare che quel modello radicalmente individuale possa superare il problema. E altrettanto è vero che la “seconda forma” del sacramento è spesso solo un “contenitore pubblico” di “atti privati”. D’altra parte la “terza forma” è costituzionalmente vincolata a “stati di necessità”, che corrispondono a una Chiesa messa alle strette, senza più spazi e tempi per la penitenza. E’ paradossale che noi invochiamo la “terza forma” quasi come per la pretesa di vivere la Chiesa fuori dallo spazio e dal tempo. Io credo, invece, che “perdere tempo e spazio” nel recuperare la capacità di farsi perdonare sia un esercizio inevitabilmente “singolare”, ma che mobilita molto più del “ministro ordinato”. Spesso non si riflette sul fatto che la “esclusiva” del presbitero riguarda la “assoluzione” non il “fare penitenza”. Nel percorso penitenziale abbiamo bisogno non solo di presbiteri – che da soli possono far poco – ma di uomini e donna di esperienza spirituale: uomini e donne capaci di consigliare, di testimoniare, di non vivere per se stessi. Questo è lo spazio più autentico per un recupero del “fare penitenza” molto più ampio e complesso del sacramento della riconciliazione. Il quale deve restare al servizio di “altro da sé”. Da un lato al servizio della “vita di comunione”, dall’altro al servizio di una “virtù di penitenza” che, dall’interno della comunione ecclesiale, si esercita in mille maniere: nella celebrazione domenicale, nella preghiera comunitaria, nella meditazione personale, nel soccorso all’ultimo, nelle opere di misericordia, nell’ascolto della Parola.

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