Differenza sessuale e sacramenti: iniziazione, guarigione e servizio


Bel-187

Nei giorni scorsi ho già pubblicato la presentazione (qui) di un testo appena uscito in libreria e che interviene nel dibattito sulla ministerialità maschile e femminile nella Chiesa cattolica: A. Grillo -E. Massimi, Donne e uomini: il servizio nella liturgia (Roma, CLV-Ed. Liturgiche, 2018)  Aggiungo in questo post la parte iniziale del mio articolo (I sacramenti come luogo di elaborazione di identità ecclesiale e di differenza sessuale. Lettura in prospettiva sistematica, con 10 tesi”, pp. 39-60) di cui avevo già pubbicato le tesi finali (qui). In questo testo (pp. 39-45) affronto la questione della rilevanza della differenza sessuale nel settenario sacramentale.

 Differenza sessuale e sacramenti: iniziazione, guarigione e servizio

“Omnis utriusque sexus fidelis”

(Concilium Lateranense IV)

Vorrei iniziare la mia riflessione da questo famosissimo incipit della Costituzione del Concilio Lateranense IV, ossia dal testo che ha inaugurato formalmente la tradizione del “precetto pasquale” (1215) nella tradizione occidentale: forse è stato poco notato il fatto che la inclusione di “entrambi i sessi” (utriusque sexus) costituisce un precedente fondamentale circa la “parità di doveri” nella esperienza ecclesiale cristiana. Troviamo qui, indirettamente, il segno di una “vocazione alla parità dei diritti e dei doveri” assunta al proprio centro dalla tradizione cristiana. Se già nella evoluzione nella prassi di iniziazione del cristiano, con il passaggio dalla circoncisione al battesimo, vi era stato un salto abissale – con tutte le inevitabili conseguenze sul piano della eguaglianza tra maschi e femmine, che il battesimo consente e che la circoncisione sembra ostacolare – ora anche sul piano penitenziale veniva stabilito un criterio paritetico al quale ormai ci siamo assuefatti, ma che allora non era affatto scontato. Detto altrimenti: la tradizione liturgico-sacramentale, fondata sulla iniziazione e guarigione del soggetto credente in Cristo, ha elaborato raffinati criteri di “parità tra i sessi”, che poi però è stato molto difficile poter estendere ai sacramenti del servizio1, dove la logica della differenza sessuale è stata tradotta largamente nelle categorie sociologiche e culturali della società tradizionale e chiusa. Potremmo dire che il principio di “radicale apertura alla eguaglianza”, incluso nel nucleo originario del Vangelo – che tende a superare in Cristo ogni discriminazione tra le polarità culturali e sociali tra giudeo e greco, libero e schiavo, maschio e femmina (cfr. Gal 3,28) – riesce in qualche modo ad affermarsi per le logiche di iniziazione/guarigione, mentre trova un ostacolo strutturale nei sacramenti del servizio, ossia nelle logiche mondane e secolari di esercizio della autorità per il bene comune e di organizzazione della vita sociale per la generazione. In questi campi, diversamente da quanto accade per le logiche della iniziazione e della guarigione, la “differenza sessuale” viene trascritta storicamente in una forte differenziazione nella attribuzione ai soggetti di autorità/potere/servizio, spesso accompagnata da una ardita trasposizione di tale logica sociale e culturale sul piano di una argomentazione teologica ed ecclesiale in vista di una legittimazione naturale e/o divina dello status quo. In altri termini, molto spesso viene spostato a livello di un “piano naturale” o di un “disegno divino” l’assetto storico – lo status quo – di una cultura sociale, che ammette e spesso impone disuguaglianze, discriminazioni, sottomissioni e schiavitù. La storia è tale perché così voluta, ontologicamente, da Dio. Tutto è sempre esposto al grave rischio di essere giustificato mediante uno stretto – ma non stringente – rimando alla natura e alla creazione, che si vorrebbe capace di fornire un criterio di giustificazione e di imposizione verso ogni potenziale o reale discriminazione. Ciò altera, in radice, la possibilità che la differenza e la disuguaglianza venga riconosciuta come ingiustizia2.

Qui vorrei essere molto chiaro: la riduzione sociologica e culturale della tradizione non è affatto l’effetto di una lettura tardo-moderna, ma appare piuttosto come il portato strutturale della tradizione, che si evidenzia in modo assai forte proprio per i due sacramenti del servizio (e a differenza degli altri cinque). In questi ultimi due sacramenti, infatti, essendo in gioco la salvezza “non propria, ma dell’altro”, accade strutturalmente una correlazione teorica e pratica con la sollecitudine per il “bene comune”, la quale rischia continuamente di confondere il “disegno di salvezza” con l’”ordine pubblico”3.

Per lo sviluppo della mia relazione, è bene sostare inizialmente su questo assunto metodologicamente decisivo (§.1), per poi esaminare punto per punto alcune acquisizioni in campo iniziatico/terapeutico (§.2), soffermandoci quindi su alcune preziose annotazioni che ci vengono dal pensiero di S. Tommaso nella Summa Theologiae (§.3). Passerò quindi ad altri tre passi: dopo una breve rassegna di acquisizioni, per rilanciare il dibattito teologico ed ecclesiale sul tema (§. 4) ed un excursus intorno alle conseguenze della lettera di Giovanni Paolo II Ordinatio sacerdotalis sul dibattito intorno al diaconato (§.5) trarremo qualche filo di sintesi sui due sacramenti del servizio, ordine e matrimonio, nella forma di 10 tesi conclusive (§.6).

 

1. Alcune premesse di carattere metodologico

L’accenno metodologico fatto in sede iniziale merita una ripresa più accurata e distesa. Cerco di spiegarmi meglio e di chiarire la argomentazione sistematica e storica che intendo proporre. Ritengo, infatti, che si debba diffidare di tutti quegli approcci, che denunciano semplicemente una “riduzione sociologica e culturale” delle questioni intorno al ministero ecclesiale, come se la “domanda di autorità” che sorge dal popolo di Dio di sesso femminile scaturisse da una inedita riduzione del ministero al potere. Come se oggi andasse smarrito quel “disinteresse” tradizionale e la teologia fosse avvelenata da un approccio “interessato”. La argomentazione che resiste ad ogni riconsiderazione delle “differenze” rivolge alle nuove teorie sul ministero l’obiezione di essere “riduttive”. Una posizione simile si trova ripetuta in diversi ambiti della espressione ecclesiale del magistero..

Ricordo, ad esempio, la famosa conferenza dell’anno 2000, dell’allora Prefetto J. Ratzinger, a proposito del concetto di “communio” come criterio di interpretazione della Costituzione conciliare Lumen Gentium4, su cui si è soffermato con competenza R. Repole5 in un recente Convegno della nostra Associazione di Professori di Liturgia. Come è evidente, in questo testo possiamo rilevare, come in molti altri autori, un ragionamento che può essere tradotto per brevità in questo assunto: la pretesa di leggere il concetto di ‘communio’ come chiave ermeneutica di LG non sarebbe altro che una “richiesta di maggiore potere” da parte di un soggetto ecclesiale (laicale). La pretesa sarebbe da respingere perché indotta non dalla evidenza del Vangelo, ma dalla cultura individualistica e prassistica tardo-moderna.

Questo approccio può essere considerato tipico di un pensiero che appare lato sensu “antimodernistico”, il quale progressivamente accede ad un “immobilismo della tradizione”, poiché confonde ogni possibile dinamismo ecclesiale con un grave cedimento alla mentalità del mondo e un tradimento del Vangelo. La mancanza di comprensione del condizionamento sociologico-culturale della tradizione non permette più di distinguere tra “sostanza” e “rivestimento” del depositum fidei. Non fa più memoria delle parole profetiche con cui Giovanni XXIII aveva aperto il Concilio Vaticano II e così contraddice il criterio pastorale che quel Concilio aveva introdotto potentemente nella coscienza ecclesiale, fino ad approdare ad una – più o meno aperta – negazione della svolta conciliare.

Questo modo di pensare e di argomentare deve essere accuratamente segnalato come un “luogo comune” di consistenti porzioni del magistero postconciliare, che ha avuto un influsso generale sull’intero corpus magisteriale e teologico, ma che ha brillato con particolare evidenza proprio sul piano della riflessione sul ministero e sull’autorità. Tale modo di ragionare determina una serie di effetti incontrollati, che è bene enumerare con una certa analiticità, sebbene solo in via preliminare:

– chiudendo la tradizione in una storia soltanto “passata”, di cui si trascurano i condizionamenti culturali e sociali, esso svuota il magistero di ogni potere, poiché lo riduce a “custodire un museo”, senza permettergli di “coltivare un giardino”, per usare una nota espressione di papa Giovanni XXIII6.

– riduce e inibisce la “esperienza dello Spirito”, che apre la Chiesa ad una fedeltà non soltanto al passato, ma anche al futuro, non riuscendo a comprendere che la fedeltà alla tradizione deve lasciarsi illuminare non solo dalla Parola di Dio, ma anche dalla esperienza degli uomini e delle donne (GS 46)

– nel dichiarare di “non avere il potere” di modificare la disciplina tradizionale,  conferma lo “status quo” come se fosse la pienezza della risposta ecclesiale al Vangelo, innalzando il passato a regola assoluta e perdendo il registro profetico: nega di avere il potere, ma lo esercita nelle forme autorizzate dal passato. Ottiene un rafforzamento del proprio potere mediante una retorica della negazione del potere.

Questa dinamica – che potremmo definire “autoreferenziale” – di fatto ottiene l’effetto rischioso di paralizzare la tradizione e di sospenderne la efficacia. Questo, come abbiamo detto sopra, vale in primo luogo per i sacramenti del servizio: sia sul piano del ministero ordinato, sia sul piano del matrimonio, tale irrigidimento ha provocato notevoli disagi negli ultimi decenni, causando un grave arresto tanto del dibattito teorico quando della esperienza pratica. In origine non era affatto così. Per questo ci dedichiamo ora ad una breve rassegna del modo di condurre la riflessione sulla “differenza” nell’ambito più ampio e generale del “sapere sacramentale”.

2. Il quadro generale della problematica sacramentale su identità ecclesiale e differenza sessuale

Non è difficile dimostrare che la tradizione di riflessione sacramentale sulla “differenza sessuale” ha profondamente superato l’opposizione maschio/femmina quando ha messo a tema il contesto della iniziazione o della guarigione cristiana. Tale tradizione infatti, pur risentendo pesantemente del carico pregiudiziale di una cultura tipica della “società chiusa” – ossia di una società che predetermina la identità sessuale, sociale e culturale dei soggetti – ha saputo elaborare sorprendenti forme di “inclusione”, per quanto esse appaiano oggi marginali, che illustrano bene la consapevolezza pre-moderna sui quei condizionamenti socio-culturali, che la tarda-modernità ha provato a negare. Per questo vorrei qui capovolgere il luogo comune della apologetica tardo-moderna. Il riduzionismo che essa denunciava come tipico della cultura moderna apparteneva strutturalmente anche alla propria tradizione. Occorreva allora – ed occorre anche oggi – un discernimento non apologetico della tradizione, che forse solo nel nostro tempo può esserci finalmente permesso, grazie non soltanto allo stile inaugurato dalla grande stagione conciliare, ma anche dalla potente ripresa di essa, due generazioni dopo, da parte del pontificato profetico di Francesco. Se infatti esaminiamo i sacramenti di iniziazione e di guarigione, osserviamo al loro interno lo sviluppo di una dinamica di profonda integrazione di “maschio e femmina”, con una evoluzione che ha origini assai risalenti e forme assai esplicite. Proviamo a fare una breve rassegna di questi “segni”, considerando prima il livello della sacramentaria generale, e poi quello della sacramentaria speciale.

2.1. De sacramentis in genere

a) In generale appare molto opportuno, sulla scia di ciò che negli ultimi decenni hanno fatto J. Komonchak e P. Huenermann7, passare in rassegna, ordinatamente, tutti gli “argomenti” che sono stati elaborati per escludere o per ammettere un “ministero ordinato femminile”;

b) Accanto a tale ordinato elenco, risulta assai opportuno indagare, sempre in generale, in che modo sia stata storicamente pensata la “mediazione di Cristo nella Chiesa” sul piano liturgico. Dovremmo chiederci in quale senso e da quali autori sia risultato rilevante, intorno alla persona di Cristo, il sesso maschile piuttosto che la identità ebraica, la natura di pellegrino piuttosto che quella di profeta. Il gioco tra questi elementi non è semplicemente un “dato” da assumere, ma un principio per una ermeneutica complessiva del discepolato nella Chiesa. Qui, come è evidente, non si dà mai una semplice “traduzione” che non sia anche una “interpretazione”- Come accade in ogni caso e come solo di recente abbiamo tentato vanamente di negare.

2.2.De sacramentis in specie

a) Un luogo comune classico è il configurarsi di una “ministerialità battesimale” (anche se soltanto necessitatis causa) da concedere anche alla donna: gli argomenti impiegati sul tema possono essere utili in generale per il dibattito e li considereremo nel prossimo paragrafo. La urgenza di assicurare un accesso alla esperienza ecclesiale ha permesso, persino all’interno di società chiuse, di elaborare criteri di ministerialità femminile dovuti a ragioni di forza maggiore – certo – ma per i quali si sono messe in campo, come vedremo, argomentazioni teologiche fini, di cui oggi faremmo bene a non dimenticarci. La logica “indifferenziata” di accesso al rapporto con Cristo non riguarda soltanto il soggetto, ma potremmo dire che contagia anche il ministro. La apertura “alle genti” della Parola di Dio trasforma non solo giudeo e greco, ma anche libero e schiavo e persino maschio e femmina. Il superamento delle differenze non riguarda soltanto il soggetto della salvezza, ma anche il mediatore della salvezza, colui/colei che agisce non per sé, ma per l’altro.

b) Una prospettiva inversa, invece, riguarda il sacramento della cresima e la sua estensione – aproblematica? – al cristiano di sesso femminile, cui si attribuisce la “piena maturità spirituale”. Questa convinta attribuzione al soggetto femminile della qualità di soggetto destinatario della cresima sembra confliggere con la logica ordinaria che nega lla donna ogni “eminenza di autorità”. Ciò che sul piano del sacramento dell’ordine sembra esplicitamente negato, sul piano del sacramento della confermazione viene invece affermato senza alcuna esitazione. Anche in questo caso è significativo che il ridimensionamento ministeriale – sulla base della coscienza culturale e sociale del tempo – non impedisca l’annuncio e la celebrazione della “piena maturità spirituale” di maschio e femmina, con la acquisizione della differenza all’interno di una profonda identità e parità.

c) Infinite ricadute si possono scorgere nella celebrazione eucaristica di questo approccio “non chiarito” della donna come ministro rimosso del battesimo e come destinatario scontato della cresima. I diversi ministeri eucaristici risentono a fondo di tale questione irrisolta. Se, da un lato, la eucaristia viene compresa come “compimento del battesimo e della cresima”, allora non si manifestano resistenze ad ammettere anche le fedeli di sesso femminile nella pienezza della dinamica eucaristica; se invece si legge la eucaristia come “esercizio di un ministero”, allora anche la semplice vicinanza all’altare, il servizio nella assemblea o la proclamazione della Parola possono essere colte come una grave infrazione della tradizione e come una minaccia per il futuro della credibilità ecclesiale. Nella eucaristia, che è al crocevia tra iniziazione e tutti gli altri sacramenti, le logiche del soggetto e quelle del ministero si intersecano e talora si annullano a vicenda.

d) Se la penitenza ha inserito nella sua storia il confessionale solo a partire dalla prima metà del XVI secolo, a Verona, con il Vescovo Giberti, come “strategia volta a conservare l’ ordine pubblico”, allo scopo di separare con una parete – che poi sarà forata dai buchi stretti di una “grata fissa” – il confessore maschio dalla penitente femmina, ciò significa che anche il IV sacramento deve dedicare una riflessione specifica al “femminile” nel campo degli atti del penitente, come anche nella prassi del confessore. E anche qui, mi pare, si potrebbe e si dovrebbe osservare una sorta di biforcazione interna a prassi e teorie: se da un lato e in continuità con i sacramenti della iniziazione la logica dell’omnis utriusque sexus ha largamente prevalso, nelle questioni in cui interferisce l’esercizio della autorità o le considerazioni dell’ordine pubblico, la separazione e la discriminazione hanno spesso preso la mano e differenziato – o discriminato – vissuti, processi e prospettive.

e) Con la “unzione degli infermi” la ingombrante rilevanza del “corpo del malato” – con le sue peculiarità maschili e femminili – ha richiesto una accurata disciplina dei gesti e dei sensi, nel necessario incontro tra ministro maschio e malata femmina: forse la storia potrebbe darci buone prove di “logiche di genere” confuse e nascoste sotto le “logiche generiche” o forse aggirate proprio con la genericità dei riferimenti. La vicinanza al malato/morente – maschio o femmina – veniva certamente composta con una diversa prassi verso uomini e verso donne, che corrispondeva al differenziarsi del battesimo della donna adulta rispetto a quello dell’uomo8. Identità cristiana e differenza sessuata/sessuale. Così nella stessa malattia e nella medesima morte, maschi e femmine si differenziano.

Al termine di questa breve e sommaria rassegna vorrei annotare due elementi che la tradizione ha faticato ad integrare: da un lato una identità cristiana – iniziata alla comunione con Cristo e con la Chiesa o guarita dalla perdita peccaminosa o morbosa della comunione – che ha, come contenuto forte, una radicale esperienza di uguaglianza in Cristo; dall’altro una profonda assunzione dei “ruoli sessuali” da una cultura spesso identificata con la natura e con l’ordine divino. Come vedremo, proprio questa confusione tra “ordines” – in particolare tra ordine divino e ordine pubblico9 – è alla radice di uno scollamento della tradizione, di cui il mondo tardo-moderno, più che essere causa, ha subito gli effetti e ha fatto le spese. Ma anche nel pieno di questa tradizione, all’interno di una società chiusa come quella medievale, il pensiero teologico ha saputo elaborare strategie di emancipazione dal condizionamento culturale, di cui anche oggi potremmo far tesoro.

1 Nelle categorie del Catechismo della Chiesa Cattolica gli ultimi due sacramenti – Ordine e Matrimonio – sono “ordinati alla salvezza altrui” (CCC 1534). Ossia, non hanno al centro la propria salvezza, ma quella dell’altro. Per questo sono segni di “servizio”, richiedono una “vocazione”, ma riguardano anche un particolare “esercizio della autorità”. Proprio su questo ultimo aspetto – di “appartenenza ad un ordo” e di “assunzione di diritti e doveri” – incontriamo anche il livello su cui i due sacramenti, pur nella loro diversità, hanno patito non solo una “contestazione da fuori”, ma una “rielaborazione dall’interno”, dovuta al mutare delle condizioni culturali e alle forme sociali con cui si può concepire la “societas”, che passa da “inaequalis” ad “aequalis”.

2 Anzi, propriamente la forma argomentativa è inconsapevolmente orientata alla esclusione di ogni ingiustizia, recuperando nella “volontà di Dio” la giustificazione di ogni differenza e di ogni discriminazione. Su questo punto, in modo radicale, assistiamo alla differenziazione del mondo tardo-moderno rispetto alla tradizione pre-moderna. Potremmo dire che la differenza consiste nel non tollerare più una funzione “giustificatrice” della fede rispetto allo “status quo”.

3 Come è evidente, una diretta riconduzione della salvezza all’ordine pubblica crea, inevitabilmente, un corto circuito, che la tradizione ha gestito abbastanza agevolmente, ma che la tarda modernità, con la scoperta della “libertà” e della “uguaglianza” tra i soggetti, fatica a gestire. Il rischio è che il “bene comune” e l’”ordine pubblico” non riescano a cogliere la ingiustizia della differenze, ma tutto giustifichino in base ad una problematica identificazione tra “ordine pubblico” e “bene comune”.

4 Cfr. J. Ratzinger, L’ecclesiologia della Costituzione “Lumen Gentium”, apparsa sull “Osservatore Romano” il 4 marzo 2000 e poi pubblicata su “Nuova Umanità”, 22(2000), 383-407.

5 Cfr. R. Repole, Riforma della liturgia e immagine di Chiesa. Tra Sacrosanctum Concilium e Lumen Gentium, in P. Chiaramello (ed.), Il Concilio Vaticano II e la liturgia: memoria e futuro, Roma, CLV-Ed. Liturgiche, 2013, 59-81, in particolare alle pp. 61-62.

6Cfr. G.Ruggieri, Esiste una teologia di papa Giovanni?, in Un cristiano sul trono di Pietro. Studi storici su Giovanni XXIII, a cura della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna, Servitium editrice, Bergamo 2003, 253-274.

7 Cfr. P. Huenermann, Zum Streit ueber den Diakonat der Frau im gegenwaertigem Dialogsprozess – Argumente und Argumentationen, “Theologische Quartalschrift”, 192(2012), 342-378. Ma già 40 anni prima cfr. P. Huenermann svolgeva già 40 anni fa in Conclusions Regarding the Female Diaconate, “Theological Studies” 36/2 (1975), 325–33 e J. Komonchack Teological Questions on the Ordination of Women, in A. M. Gardiner (ed.), Women and Catholic Pristhood: an expanded Vision. Proceedings of the Detroit Ordination Conference, New York – Paramus – Toronto, Paulist Press, 1976, 241-259.

8Su questa differenziazione nel battesimo, cfr. M. Scimmi, “Una lettura al passo con i tempi delle fonti sulle diacone”, in S. Noceti (ed.), Diacone. Quale ministero per quale Chiesa?, Brescia, Queriniana, 2017 (GdT 399), 223-265, soprattutto 229ss.

9Tra questi due “ordines” – divino e pubblico – l’ordo liturgico è un “tertium genus” che merita attenzione, poiché non si lascia gestire “immediatamente” né come ordine divino né come ordine pubblico. Piuttosto non si identifica né con l’uno né con l’altro, pur essendo correlato all’uno come all’altro, ma in una forma “in divenire”. Sta al di là dell’ordine pubblico, ma al di qua dell’ordine divino. E relativizza il primo mentre dinamicizza il secondo.

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