Dialogo con Fulvio Ferrario sulla ordinazione di uomini sposati : domandina e rispostina


Ferrario

Con stile leggero, ma con passione, Fulvio Ferrario pone una questione intorno al “presbiterato uxorato” che merita di essere considerata. Ripropongo la sua domanda e faccio seguire la mia breve risposta.

“Preti sposati”? Una domandina (di Fulvio Ferrario)

Hanno un bel dire gli esponenti ufficiali della Chiesa cattolica, che la questione dell’ordinazione di uomini sposati non esaurisce il documento del Sinodo amazzonico: le ragioni per le quali l’attenzione si accentra su tale aspetto non richiedono nemmeno di essere menzionate. E’ vero che il linguaggio è più ricco di periodi ipotetici di quello di Renzi quando parla di lotta all’evasione fiscale, ma insomma la “cosa” è menzionata.

So che questo elemento fa felici alcune amiche e amici cattolici e, per elementare solidarietà, mi rallegro con loro. C’è anche un accenno al diaconato femminile (un gradino al di sotto, ci mancherebbe altro…) che “Avvenire” si affretta a catalogare come “un’ipotesi, comunque eccezionale”, ma che a me ricorda appassionate battaglie condotte da persone che mi sono care.
La questione dell’ordinazione di uomini sposati già inseriti nel diaconato permanente (quello maschile, com’è noto, non è “eccezionale”) era già stata accennata da Francesco, e associata a paesi remoti e situazioni estreme. Ora è esplicitamente motivata con il ridotto numero di sacerdoti in un territorio immenso. Il primo punto, però, non è un problema solo amazzonico, anzi.
Come osservatore interessato, mi permetto una domanda critica. Se è lecito: perché vedo in circolazione esponenti di una specie di sant’uffizio catto-progressista e “franceschista”, i quali bollano come “inutile”, “superato” e in definitiva antiecumenico ogni interrogativo del genere, specie se da parte protestante. Secondo loro, essere ecumenici significa scodinzolare e basta. Ma veniamo alla domanda, che non è teologica, ma semplicemente logica.
Rispetto alla proclamazione dell’evangelo nella sua autenticità, che è il compito di tutte le chiese, l’ordinazione di uomini (per quel che mi riguarda anche donne, naturalmente, ma restiamo sul punto) sposati può essere: a) negativa, cioè contraria all’autenticità del messaggio; b) positiva, cioè conforme a tale messaggio, così come oggi lo comprendiamo. In teoria, potrebbe anche essere “indifferente”, in quanto legata a semplici considerazioni di opportunità, ma in tal caso non si capirebbe l’accanimento nella discussione.
Nell’ipotesi a), la scelta andrebbe ovviamente rifiutata; se invece vale b), evidentemente accettata. Senza restrizioni, in Amazzonia come in Norvegia, come un’occasione e non come una specie di terapia d’urto per malattie gravi. Così aveva fatto la Riforma protestante, offrendo motivazioni chiare: non tutte precisamente teologiche (ad esempio: il celibato ecclesiastico, comunque, è largamente disatteso), ma precise. La domanda è: aveva ragione o torto?

P.S. Ovviamente, tutto ciò non ha nulla a che vedere con il significato carismatico del celibato “per il regno di Dio”, come si esprime Gesù. La questione riguarda soltanto il carattere obbligatorio del celibato in relazione al ministero della parola e dei sacramenti.

Una rispostina: la tradizione sa camminare (di Andrea Grillo)

La domanda del prof. Fulvio Ferrario è, come lui stesso dice, più logica che teologica. Riguarda la correlazione tra annuncio del Vangelo e ordinazione di uomini sposati. E si concentra in un giudizio che il cattolicesimo, valutando la propria tradizione in relazione a quella dei fratelli della Riforma protestante, potrebbe dare sulle loro buone o cattive ragioni. Ma, come si sa, la logica, che di per sé ha autorità diversa, ha essa pure una sua bella teologia.

Non vi è dubbio, infatti, che la questione sollevata, e messa in questo modo, non sia facilmente aggirabile. Né che debba per forza giungere ad una sconfessione della posizione cattolica classica.

Può essere utile concentrare la attenzione sul mutamento che la condizione dei battezzati “uxorati” ha conosciuto nel corso degli ultimi due secoli. E che il cattolicesimo ha gradualmente recepito, fino ad arrivare, oggi, a porre in questione, seppure in modo limitato, la assolutezza “latina” del legame tra ordinazione presbiterale e vita celibataria. Legame che, peraltro, aveva già conosciuto, all’interno dello stesso cattolicesimo, chiare forme di “eccezione” non solo per le modalità di comprensione e di esperienza “orientale” della vita ministeriale, ma anche per la novità recente della ammissione al diaconato permanente di uomini, per l’appunto, sposati.

Ma più interessante, nella domanda sollevata da Fulvio, mi pare la differenza, sostanziale, tra la comprensione della nuova prassi cattolica come “caso di necessità” piuttosto che come “occasione”. Qui, evidentemente, il passaggio della tradizione non è facile. Io ritengo, mi pare in bella sintonia con Fulvio, che ciò che appare oggi ammesso come “caso di necessità” si debba comprendere come “occasione”, per ampliare esperienzialmente e culturalmente la “forma cattolica” del ministero ordinato. Il fatto che oggi il cattolicesimo possa accingersi a riconoscere, gradualmente, un presbiterato di ministri uxorati e un diaconato esercitato da donne, ciò costituisce una grande occasione non solo per capire meglio se stessi, ma anche per riconoscere in modo più lucido e più onesto le fatiche e i pregi del cammino altrui. Forse abbiamo caricato troppo peso sulle spalle del celibato “senza vincoli” e troppo poco abbiamo valorizzato le vite “vincolate” degli sposi. Come ha detto in uno splendido articolo sull’Osservatore Romano, Mons. Vesco, il celibato può certo essere compreso come un “tenere per sempre la porta socchiusa” e restare disponibili ad ogni incontro. Chi si sposa, invece, chiude la porta. Ma non è detto che la porta socchiusa possa davvero caratterizzare una stanza capace di accogliere tutti e che, invece, la porta chiusa possa non essere il segno di una vita definitivamente “sprangata”. Un confronto tra gli universi cristiani di relazione tra celibato, matrimonio e ministero farà bene al cammino della chiesa, di ogni chiesa. Tale cammino permette di scoprire nuove regioni della esperienza umana e cristiana, arrivando a trasformare anche le parole stesse con cui parliamo. Da ieri l’altro, infatti, dal momento in cui abbiamo conosciuto il testo del documento finale del Sinodo, abbiamo iniziato a poter almeno immaginare che il diaconato “permanente” di un coniugato possa diventare, almeno in qualche caso, “diaconato impermanente”. E che vi sia, almeno per alcuni coniugati, dopo un diaconato permanente, anche un accesso al presbiterato. Queste sorprese riserva la tradizione: anche nella sua versione cattolica. Con piccoli o grandi smarrimenti, ma non senza più grandi e più fondate speranze.

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