Amoris Laetitia, le parole e il silenzio: una lettera a Giulio Meiattini


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La riedizione del testo “Amoris Laetitia? I sacramenti ridotti a morale” di Giulio Meiattini presenta una nuova Introduzione, che è stata offerta integralmente in lettura da parte di un blog (cfr. qui). Poiché l’autore è professore a S. Anselmo e mio collega, ritengo opportuno scrivere alcune riflessioni, in dialogo con lui, in modo che si possa vedere la grande libertà di confronto che l’Ateneo anselmiano presenta al suo interno e che offre anche alla formazione critica e argomentata dei propri studenti. Sul giudizio intorno al pontificato di Francesco e in particolare su AL questo blog ha già presentato discussioni critiche, nelle quali lo stesso Giulio Meiattini è direttamente intervenuto. Ecco allora il contesto nel quale inserisco anche questa lettera al mio collega.

Caro Don Giulio,

se ipotizzi che quei ponti ecclesiali e culturali – che papa  Francesco costruisce ormai da 6 anni – siano destinati ad essere un nuovo “ponte Morandi” e se vuoi considerare te stesso come un “ingegnere” che “non vuol tacere” i rischi di questa costruzione pontificale, a tuo avviso destinata alla rovina, come tu stesso scrivi alla fine della nuova introduzione, questa mi pare una piega apocalittica e direi catastrofica del tuo pensiero, che non avevo letto con tanta pesantezza nel tuo testo in prima edizione. Questo esito, a tuo avviso, dipenderebbe da una “strategia del silenzio”, con cui di fatto si “chiamerebbe bene il male e male il bene”. E questo sarebbe, a tuo avviso, il “dato obiettivo” segnalato dal silenzio piombato improvvisamente su due “parole-chiave” della identità cattolica circa il peccato, ossia “adulterio” e “omosessualità”.

Ebbene, io trovo che la tua analisi suoni profondamente unilaterale e senza vero contatto con quella realtà, umana ed ecclesiale, di cui intendi parlare. Per di più ciò avviene sotto il “titolo” di una presunta denuncia della riduzione dei sacramenti alla morale, che tu imputi apertamente al magistero di Francesco. Come avevo già scritto in un nostro dialogo precedente, dedicato alla prima edizione del tuo libro, a me pare che sia proprio il tuo approccio – non quello magisteriale – a non vedere più la differenza del sacramento dalla morale e a confondere il primo con la seconda. Ciò che AL ha fatto, e ciò che continua a fare il magistero di Francesco anche dopo AL, sta proprio nel segnare, direi quasi nel “marcare”, la differenza tra domanda morale e normativa ed esperienza sacramentale.

Provo a dirlo con altre parole: tu vedi una “strategia del silenzio” nel non far uso dei termini “adulterio”  e “omosessualità” da parte del magistero recente. Ma tu sei proprio sicuro che, continuando ad usare quelle parole, proprio come fai tu, si riesca davvero a parlare della realtà umana ed ecclesiale, antropologica e teologica, che abbiamo davanti a noi e nella quale viviamo? Sei certo che il termine “adulterio” si possa usare oggi esattamente come 100, 500 o 1500 anni fa e indifferentemente per situazioni tanto diverse? Sei sicuro che le questioni che riguardano gli “abusi su minori” possano essere affrontate non con la critica della formazione, del clericalismo e della rappresentazione di sé, ma solo con il riferimento severo al peccato di omosessualità? E addirittura tu pensi davvero che le “aperture sui divorziati risposati” volute da AL siano l’inizio del “piano inclinato” che travolgerà tutto e tutti, solo perché separerebbe per la prima volta esercizio della sessualità e istituzione matrimoniale? In quale considerazione tieni il fatto che la “sessualità” stessa è non solo una parola nuova, ma una esperienza nuova, di cui la tradizione è del tutto priva prima del XIX secolo?

Queste domande, che ora ho voluto rivolgerti, sono reali, non sono domande retoriche. Io davvero non capisco come tu possa pensare che “adulterio” e “omosessualità” possano essere considerati semplicemente dei “peccati”, come avviene in una società chiusa,  e non indichino anche “fatiche” e “ferite” con cui i soggetti, in una società aperta, possono certo vivere e fare il male, ma anche possono trovare, in modo complesso e non lineare, una via verso il bene. Proprio qui, a me pare, vorrei sentire che cosa pensi. Perché di questo, in fondo, tu non parli mai. E non sembri sensibile alle trasformazioni con cui la storia, in cui gli uomini e Dio sono coinvolti, cambia le nozioni e le pratiche, mentre scopre nuove vie. Come fai a non tener conto del fatto che “adulterio” è anche una nozione morale e giuridica, sottoposta a profonde trasformazioni morali e normative da parte delle forme di vita di un mondo che sperimenta il rapporto tra libertà e autorità in modo tanto nuovo? Ciò che ha scritto J.-P. Vesco, a proposito del mutamento del concetto giuridico di adulterio – da reato permanente e a reato istantaneo – come fa a non incidere sul modo con cui tu valuti, del tutto aprioristicamente, la evoluzione del linguaggio del magistero sotto la guida di Francesco? Qui io trovo che il tuo giudizio si faccia talmente severo e rigido, e così privo di aperture, da vedere in tutta questa elaborazione semplicemente una perdita, una corruzione, una confusione, una decadenza, una morte. Tu la leggi solo come un disastro, come un ponte che crolla. Su questo sento di dissentire profondamente da te, anzitutto a motivo della convinzione secondo cui la tradizione può vivere solo se sa ancora tradursi, se osa fare ponti, piuttosto che rinunciare a camminare. E se, nel farli, accetta di avere, oltre che molto da insegnare, anche molto da imparare, da quelli che per primo Giovanni XXIII ha chiamato “segni dei tempi”. Se invece la tradizione, nella sua pretesa completezza, resta abbarbicata soltanto al passato, quando viene il bene, non se ne accorge. Pensa di difendere il Vangelo, e difende invece solo l’assetto medievale, tridentino o ottocentesco con cui il matrimonio e la vita sessuale venivano compresi, orientati e disciplinati, in una società chiusa, senza libertà dei soggetti e senza autodeterminazione delle coscienze.

La nostalgia per un “magistero che non tace”, mi sembra troppo simile alla paura di fronte ad un mondo complesso, ma non perduto, complicato, ma non abbandonato. A mio avviso è proprio il magistero precedente a Francesco che spesso taceva e restava fermo alle formulazioni classiche, senza comprendere le cose nuove, ma difendendo soltanto lo “status quo”. Dove tu trovi silenzio, io vedo parola e profezia; dove tu sentivi risuonare una parola autorevole, io colgo spesso paura e chiusura diffidente.

E’ invece proprio il sacramento, quando non si riduce a confermare una morale o un assetto istituzionale, a mantenere aperto escatologicamente il giudizio sulle vite, facendo spazio alla volontà di Dio, che non è mai riducibile alla obbedienza ad una legge.  Io non vorrei che la difesa del cattolicesimo, che tu proponi con tanto vigore, diventasse, anche per te, la difesa di un “assetto istituzionale cattolico”, della morale e del diritto, rispetto a cui il sacramento ha invece il compito di illuminare la realtà e anche di contestarla. La confusione tra questi livelli mi sembra molto rischiosa. E la lettura catastrofica che ne trai risponde certo a criteri astratti, ma non alla realtà concreta di relazioni sentimentali e sessuali, che non possiamo catalogare semplicemente con le nozioni di un mondo del passato che, così come emerge dalle tue parole, non esiste più. E tuttavia la fine di un mondo non è né la fine della vita incontenibile di uomini e donne, né la fine della fresca missione della Chiesa. Forse proprio qui sta o cade la tua analisi troppo amara. Non si tratta di “parole sparite”, né di censure opportunistiche, né di cancellazione di peccati, ma di riconsiderazioni accurate e opportune del rapporto tra Vangelo e cultura umana e civile.

Papa Francesco sa bene che, se non si affronta, anche linguisticamente, questa sfida nuova e urgente, non si riuscirà ad annunciare il Vangelo in modo davvero efficace. La sua non è una operazione al ribasso, come tu tendi a presentarla con tanta severità, ma una preziosa mediazione tra epoche diverse, che parlano lingue diverse e che pensano con categorie diverse. Tutto questo avviene  solo al servizio di una continuità ecclesiale non monumentale o documentale, ma esistenziale ed istituzionale. Per assicurare la quale, però, tanto le parole, quanto le istituzioni, devono essere disposte a convertirsi.

Non un silenzio impaurito intorno a parole-chiave, ma una elaborazione urgente di parole nuove, chiede anche ai teologi una partecipazione appassionata, rigorosa e critica, piuttosto che una liquidazione nostalgica e catastrofica della questione in gioco. Ma capisco che, proprio qui, noi due, come tanti altri, giudichiamo le cose con metri molto diversi e reagiamo, alle stesse parole, uno col riso o l’altro con il pianto.  Tuttavia resto convinto che, se sapremo farci carico di questa differenza di linguaggi e di prospettive, senza cadere nella trappola di squalificare l’altro, riusciremo a contribuire al commino comune, per una Chiesa che sappia evitare di confondere il sacramento con la morale, la morale con la legge e la legge con la volontà di Dio.

Ti saluto cordialmente

Andrea

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